Immigrazione clandestina e tenuità del fatto


Il reato di immigrazione clandestina non è stato abrogato, tuttavia è possibile escluderne la procedibilità nei casi di "particolare tenuità"
Immigrazione clandestina e tenuità del fatto
I più recenti arresti giurisprudenziali, anche in sede di legittimità, hanno riconosciuto che possa escludersi la perseguibilità per "la particolare tenuità del fatto", di cui all’art. 34 del D.lgs. n. 274/2000, anche al reato di ingresso e soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato (cfr. Corte di Cassazione, sentenze 13412/2011 e n. 35742/2013).
Tale assunto trova il suo fondamento logico-giuridico nella sentenza della Corte Costituzionale n. 250/2010, secondo cui la mancata previsione del "giustificato motivo" nel reato contravvenzionale non comporta violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, in quanto, per la contravvenzione anzidetta, è da ritenere operante un diverso strumento di moderazione dell’intervento sanzionatorio e, cioè, dell’istituto dell’improcedibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 34 del D.lgs n. 274/2000.
In particolare, ferma restando la perseguibilità di altri fatti-reato contestabili ai singoli casi, nella quasi totalità delle ipotesi riconducibili alla fattispecie di cui al reato ex art 10 bis, se ne può evidenziare: 1) l'esiguità del danno, la possibilità di poter agire sul piano amministrativo al fine di ristabilire le regole in materia di ingresso, milita chiaramente nel senso di un danno non grave e piuttosto esiguo al bene giuridico del controllo dei flussi migratori.
2) la occasionalità della condotta, in quanto si tratta di soggetto giunto presumibilmente per la prima volta nel territorio dello Stato; 3) un ridotto grado di colpevolezza, dal momento che la consumazione del reato è connessa alla volontà di migliorare la propria condizione di vita, così da poter ritenere che la condotta sia stata determinata da una sorta di "giustificato motivo".
Considerato che il bene giuridico protetto dalla norma penale di cui all’art. 10-bis d.l.vo n. 286/1998 è quello dell’interesse dello Stato al controllo ed alla gestione dei flussi migratori, si può ritenere che da tali procedure derivi una lesione al bene giuridico di carattere esiguo e non grave.
Occorre sottolineare che il criterio dell’esiguità del danno o del pericolo, necessario affinché si possa configurare l’ipotesi dell’improcedibilità dell’azione penale per tenuità del fatto, è cosa ben diversa dall’offensività del fatto, senza la quale non avrebbe proprio senso, per carenza di uno degli elementi fondamentali, discutere della stessa sussistenza del reato. L’ingresso nel territorio italiano da parte di soggetti non cittadini dell'Unione Europa, in violazione delle norme di cui alla c.d. Legge Bossi-Fini è una condotta capace di ledere il bene giuridico del controllo dei flussi migratori, con conseguente configurazione del reato di cui all’art. 10-bis. Tuttavia, il danno cagionato da parte dei migranti all’interesse dello Stato al controllo dei flussi migratori è esiguo. Tant'è che tale interesse è tutelato parimenti da norme di carattere amministrativo, volte al ristabilimento delle procedure (violate) in materia di ingresso e di ammissione nel territorio dello Stato, che prevedono istituti quali l’espulsione, il respingimento, il trattenimento presso i CIE.
In linea teorica, un cittadino straniero che entra irregolarmente nel territorio nazionale per la prima volta commette il reato di cui all’art. 10-bis; dello stesso reato risponde il cittadino straniero che, per la prima volta, viene trovato sul territorio nazionale privo di permesso di soggiorno. In entrambe queste occasioni, al cittadino straniero va anche comminato un provvedimento amministrativo di espulsione, che potrà essere spontaneamente o coattivamente eseguito. Dopodiché il cittadino straniero che resta sul territorio nazionale, non deve più rispondere del reato di cui all’art. 10-bis, in quanto, se fa rientro in Italia, dopo essere stato effettivamente allontanato, deve rispondere del reato di cui all’art. 13, mentre se rimane sul territorio nazionale contravvenendo ad un ordine di allontanamento, deve rispondere del reato di cui all’art. 14.
Volendo analizzare l'aspetto soggettivo del reato, può affermarsi che l'ingresso illegale nel nostro territorio è caratterizzato dal cd "dolo d’impeto", che è l'ipotesi di dolo con minore intensità, caratterizzata dal carattere assolutamente estemporaneo della condotta criminosa. Infatti, è facilmente immaginabile che un immigrato "clandestino" o "irregolare" non abbia operato alcuna pianificazione deliquenziale ma abbia piuttosto agito in modo impulsiva e repentina, costretto da una situazione contingente venutasi a creare a causa dei disordini nel proprio paese o comunque per sfuggire ad una condizione di estremo disagio.
Per completezza, pare giusto ricordare che l'art 34 pone due ulteriori condizioni perchè il fatto non venga perseguito. L'interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento e il pregiudizio che possa derivarne all'indagato/imputato. Sul primo punto, abbiamo già evidenziato che lo Stato può ripristinare le regole violate mediante altre misure di carattere amministrativo, dunque non viene frustrato la sua pretesa di regolamentare gli ingressi nel Paese.
Il secondo elemento il pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento potrebbe recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell’indagato di cui all’ultimo periodo del primo comma dell’art. 34. E' di tutta evidenza che la prosecuzione di un procedimento penale a carico di un soggetto marginalizzato in un Paese sconosciuto, avrebbe certamente conseguenze fortemente negative sul suo futuro, frustrando le eventuali aspirazioni di permanere o rientrare lecitamente in Italia, per tutelare le esigenze personali e familiari.

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di Avv. Giancarlo P. Pezzuti

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