Il terapeuta e la sfera di cristallo


I primi passi della consulenza psicologica
Il terapeuta e la sfera di cristallo
Nella passeggiata immaginaria in cui spero di avervi coinolto con lo scorso articolo, non sarete soli. Se avete deciso di rispondere alla domanda "come mai ci incontriamo?", avete idealmente teso una mano. Una mano tesa è una possibilità, un invito, una prova. Prima di incontrarne un’altra e di stringerla ci vorrà ancora un po’.
Continuiamo con la costruzione della metafora.
La compagnia del vostro compagno di strada dovrà esservi gradita (avanziamo per gradi), dovrete fidarvi e dovrete sceglierlo. Dovrete ripensare al suo viso, ricordarne lo sguardo e come lo posava su di voi, dovrete ripensare a come vi faceva sentire.
Se i più scettici tra voi lettori penseranno che questa riflessione è un po’ ardita e complessa per chi arriva confuso davanti ad un terapeuta, rispondo che avete ragione solo in parte. Ciascuno di noi, a suo modo, ha uno spazio di confidenza in se stesso che non lo tradisce mai. Chi lo chiama istinto, chi vi si riferisce come al suo livello tacito, chi lo chiama inconscio: c’è e non mente. Può rimanere una voce inascoltata, certamente, ma nessuno ha mai scritto che sarebbe stato semplice come seguire un diagramma di flusso ad una sola uscita!
Un primo colloquio, non è straniante solo per chi lo richiede ma anche per chi lo "conduce". Si è estranei, si è confusi, si è ansiosi e sofferenti insieme per i due aspetti della medesima medaglia: chi soffre e chi è orientato a porvi fine.
Se vi siete idealmente seduti (o vi accingete a farlo) sulla sedia di fronte alla mia, avete già fatto un grande passo riconoscendo la natura psicosimile della vostra difficoltà o avendomi accettata come sopportabile "ultima spiaggia" (spesso, da psicoterapeuti, ci si sente dire anche questo).
Considerato che al termine della nostra interminabile formazione non forniscono la palla di vetro (dispiace più a me, credetemi), bisogna che iniziate a parlare. Non vi preoccupate di raccontare seguendo un ordine, non vi fate impensierire dal modo migliore per parlare, siate solo onesti e dite le cose così per come le pensate (e so che se ne fossimo pienamente in grado di farlo la mia categoria non esisterebbe). Fuori tutto: ipotesi, teorie, supposizioni sulle astruse origini di ciò che vi sta capitando, sortilegi salmodiati a bassa voce: basta che parliate. Alla fine del vostro flusso di coscienza non ci saranno applausi ma nemmeno fischi. Domande, quelle si: se voi tremate di paura, io fremo dalla curiosità
Ho incontrato persone deluse dal fatto che, nel mio studio, non ci fosse un lettino (oltre alla palla di vetro). Aumentando il disappunto vi rivelo che non tutti i terapeuti sono uguali e l’arredamento del loro studio potrebbe rivelarvi qualcosa rispetto alla particolare formazione. vi esorto però a non fare supposizioni e ad essere curiosi anche voi: chiedete!
Fate domande sulla formazione del clinico che avete di fronte, chiedete dove ha studiato e leggete, cercate qualcosa sul suo percorso e sul suo modo di fare terapia. Non è un segreto che la conoscenza limiti l’ansia, provate a contenerla acquisendo competenza.
Quando scegliete un medico, oltre al sempre efficace passaparola, credo che cerchiate la specialità del professionista, valutiate il suo curriculum. Fatelo anche in questo caso, valutate anche chi avete dabanti. Ascoltate voi stessi mentre siete in quella stanza, il livello di agio/disagio, la sintonia che stabilite con vostro interlocutore.
È consuetudine darsi un tempo, due o tre incontri, che descrivano uno spazio protetto per terapeuta e cliente, in cui incontrarsi e conoscersi. In questo campo neutro si fanno domande, si chiedono chiarimenti, si stabiliscono le regole, si tracciano dei confini: sia clinico che cliente fanno domande.
Ogni genere di domanda che vi conforti o vi aiuti a capire meglio è lecita, anche quella che vi sembra meno necessaria.

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di Maria Laura Taormina

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