Approcci ai disturbi della personalità


I disturbi di personalità tra approccio psichiatrico e psicoterapeutico: un modo complementare per prendersene cura
Approcci ai disturbi della personalità
Attribuire una definizione esaustiva al concetto di "personalità" è molto più complesso di quanto si possa pensare, soprattutto se si ha l’ambizione di attribuire a tale definizione una valenza scientifica o clinica. Possiamo dire che la "personalità" interessa il vissuto interiore individuale, cioè i sentimenti, le motivazioni, la volontà e, in senso più esteso, tutte le componenti psichiche che determinano il modo in cui l’individuo si relaziona con se stesso e con il mondo esterno. La componente ambientale gioca un ruolo importante nel determinare la personalità. Ognuno infatti è il risultato unico e irripetibile dell’incontro tra il dato costituzionale e quello ambientale da cui non può prescindere, perché è proprio l’influenza dell’ambiente interpersonale che dà forma alla struttura del carattere.
In base alla mia esperienza posso dire che nella pratica clinica è arduo - e perfino inutile - separare la componente "costituzionale" della persona dalle influenze delle relazioni che vive e delle esperienze che fa.

Parlando di disturbi di personalità, è fondamentale stabilire quando una personalità è patologica o meno. Il limite tra una personalità "normale" ed una "patologica" infatti non è quasi mai netto. Sebbene esistano dei quadri estremamente "caratteristici" in cui è evidente la presenza di un comportamento patologico, nel contempo esiste un’infinità di situazioni molto più sfumate e per questo per molti aspetti più insidiose. Bisogna distinguere il punto di vista psichiatrico cioè medico da quello psicoterapeutico di matrice psicologica: se per entrambi è fondamentale poter inquadrare un disturbo di personalità, lo scopo della diagnosi in ambito psicologico è diverso da quello psichiatrico rispetto al tipo di terapia che propone. Se consideriamo la complessità dell’essere umano e della sua storia, cambia anche il modo di guardare e di affrontare la sofferenza psicologica, che non può ridursi a un elenco di quadri nosografici che pure permettono di classificare e differenziare i disturbi mentali in base ai loro sintomi. Un importante contributo che la psicoanalisi ha dato alla psichiatria è proprio la distruzione del vecchio modello psichiatrico di entità nosologiche intese come malattie separate rigidamente l’una dall’altra. Invece lo psicoterapeuta, seguendo il paziente nel tempo, può entrare nella sua storia personale e chiarire meglio il senso della diagnosi iniziale che nel corso della relazione terapeutica può perfino modificarsi: un ossessivo può dimostrarsi depresso, o un isterico può manifestare una schizofrenia sottostante, cosa che uno psichiatra può verificare di meno, vedendo il paziente solo nel momento della crisi.
Per entrambi l’obiettivo primario è quello di rimuovere i sintomi e attenuare la sofferenza che il paziente lamenta ma i percorsi sono diversi: lo psichiatra focalizza la sua attenzione sul disturbo che ha diagnosticato in termini di scompenso biochimico, per individuare una molecola farmacologica che vada a bilanciare lo squilibrio che ha generato il sintomo e il disturbo comportamentale poi nel corso degli incontri col paziente monitora le sue reazioni al farmaco. Invece, lo scopo della diagnosi per lo psicoterapeuta risiede nel bisogno iniziale di farsi un’idea della persona che ha di fronte, ordinando la complessità della situazione in un quadro concettuale definito, ma senza rigidità che potrebbero limitare la sua visione e diminuire la capacità di porsi in relazione con l’altro come persona e con la sua storia. Infatti l’intervento terapeutico, più che sulle etichette che la diagnosi tende per definizione ad appiccicare, si focalizza sulla costruzione di un’alleanza terapeutica che passa attraverso l’ascolto della narrazione che il paziente fa di sé, seduta dopo seduta, per rintracciare nella sua storia l’origine di quel disturbo e il senso che ha assunto per lui. Questa diversa visione si traduce anche nel differente modo di interpretare la relazione clinica, tra curare e prendersi cura: lo psichiatra cura il sintomo per eliminarlo attraverso la terapia farmacologica, lo psicoterapeuta si prende cura della persona e della sua storia, di cui il sintomo è un aspetto della sua sofferenza. In ambito psicoterapeutico l’incontro con il paziente vuole realizzare una relazione correttiva attraverso cui generare insieme un nuovo modo di considerare se stesso e di relazionarsi con il mondo esterno. Questo processo implica un percorso faticoso e duro per il paziente, il cambiamento del pensiero e del proprio stile di vita non è indolore. A volte i sintomi e le ricadute sono così penose che in certi momenti può essere utile integrare il percorso psicoterapeutico con un sostegno farmacologico che sostenga il paziente verso la guarigione.

In conclusione, se talvolta lo psichiatra e lo psicoterapeuta possono collaborare nel definire la cura, ad esempio quando è urgente mitigare il fastidio dei sintomi o la gravità della situazione, in genere seguono percorsi diversi seppur complementari rispetto all’obiettivo da raggiungere.

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di Dott.ssa Eliana Feyer

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