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Licenziamento per fecondazione assistita


Licenziamento discriminatorio nel caso di assenza della lavoratrice per fecondazione assistita.
Licenziamento per fecondazione assistita
La Cassazione, con la sentenza n. 6575 del 05/04/16, pronunciandosi in materia di Licenziamento discriminatorio, ha statuito che la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della L. n. 604 del 1966, l'art. 15 st.lav. e l'art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonchè di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicchè diversamente dall'ipotesi di licenzimento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., nè la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita.
Il procedimento di cui si è occupata la Suprema Corte ha riguardato una lavoratrice che, alle dipendenze di un professionista, aveva adito il Giudice del lavoro di Roma perchè accertasse il suo rapporto di lavoro subordinato dal settembre del 1993 al settembre dell'anno 2005, ascrivibile al livello 4 del CCNL studi professionali e condannasse il datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive maturate e del TFR e che dichiarasse la nullità o l'illegittimità del licenziamento intimatole, in quanto determinato da motivo illecito e/o discriminatorio, con condanna della parte convenuta alla reintegra nelle mansioni ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra, anche a titolo di risarcimento del danno, sulla base dell'ultima retribuzione dovuta.
Il Tribunale di prime cure dichiarava l'illegittimità del licenziamento, ritenendo l'atto adottato per ragioni disciplinari in violazione del procedimento di cui all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e condannava il datore di lavoro alla riassunzione della dipendente ed, in mancanza, al risarcimento del danno, nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione, rigettando per il resto la domanda proposta dalla ricorrente.
La lavoratrice proponeva appello, chiedendo l'integrale accoglimento della domanda proposta in primo grado. Il datore di lavoro appellato si costituiva, proponendo appello incidentale relativamente alla parte della sentenza che la vedeva soccombente. La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava la nullità del licenziamento, in quanto discriminatorio rispetto al proposito manifestato dalla lavoratrice di sottoporsi all'estero a pratiche di inseminazione artificiale (o comunque dovuto ad un motivo illecito determinante). Ordinava la reintegrazione della ricorrente nelle mansioni e condannava il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla reintegra, oltre accessori, ed al versamento dei contributi. Rigettava gli ulteriori motivi dell'appello principale e dichiarava assorbito l'appello incidentale.
Avverso la sentenza della Corte di Appello, il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, articolandolo su due motivi, resisteva la lavoratrice con controricorso.
Con il primo motivo il ricorrente denunziava violazione o falsa applicazione degli articoli 32 e 37 della Costituzione, 2 nr 1 e 5 nr 1 della direttiva CEE 76/207 in relazione agli articoli 1345, 1324, 1418 e 2697 cc, all'art. 54 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea ed al'art. 8 D.Lgs 196/00. Evidenziando, da un lato come, diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, non vi era alcuna violazione delle tutele previste per l'ipotesi di malattia, non essendo configurabile un licenziamento "in prevenzione rispetto alle future assenze per malattia", in quanto le assenze erano la conseguenza di uno stato morboso già manifestatosi. Inoltre non poteva ritenersi sussistere il motivo discriminatorio o illecito a fronte di una condotta della ricorrente intesa ad utilizzare l'istituto delle assenze per malattia al di la dei limiti ad esso propri, non essendo configurabile una assenza per malattia in "prevenzione". La comunicazione di licenziamento evidenziava, infatti, quale ragione del recesso le ricadute negative delle assenze programmate sulla funzionalità dello studio e, dunque, una ragione economica, circostanza che di per sè escludeva il motivo discriminatorio ed il motivo illecito.
Con il secondo motivo di ricorso, il datore di lavoro deduceva carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo del giudizio, costituito dalla sussistenza del motivo discriminatorio o illecito del licenziamento, lamentando il ricorrente che la Corte aveva ravvisato la ragione determinante ed esclusiva del licenziamento nel proposito della dipendente di assentarsi dal lavoro per sottoporsi ad inseminazione artificiale, pur dando contestualmente atto del motivo economico sotteso al recesso, consistente nelle disfunzioni organizzative per l'attività dello studio.
La Corte di Cassazione riteneva le censure infondate, valutando che la sentenza impugnata era fondata su una doppia ratio decidendi ovvero, da un lato, l'esistenza di una discriminazione diretta fondata sul sesso e dall'altro, in ogni caso ("indipendentemente da tale assunto, di per se decisivo...") la nullità del licenziamento perchè dovuto ad un motivo illecito determinante. Sotto il primo profilo la Corte territoriale aveva ritenuto provata la natura discriminatoria del licenziamento sulla base delle emergenze documentali ed in particolare in ragione del tenore della comunicazione del 27/09/2005, dalla quale emergeva che la ragione che aveva indotto la datrice di lavoro a recedere dal contratto era rappresentata dal proposito manifestato dalla dipendente di assentarsi, in futuro, periodicamente, dal lavoro per sottoporsi ad un nuovo ciclo di inseminazione artificiale. Non ravvisando alcuna illogicità della motivazione nè contraddittorietà, sul presupposto della rilevanza del concorrente motivo economico. Per i motivi suddetti, la Corte di Cassazione rigettava così il ricorso proposto dal datore di lavoro e lo condannava al pagamento delle spese che liquidava in € 3.800,00 per compensi ed € 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% Iva e CPA, con attribuzione ai difensori.

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