Quando la p.a. tarda a rispondere o non risponde
Cosa fare quando si chiede il rilascio di un atto amministrativo e l'Autorità interpellata tarda. C'è un Giudice a Berlino?
A tutti è capitato di avere atteso a lungo il rilascio di un provvedimento richiesto ad una pubblica amministrazione.
Fino al 1990 questa ipotesi era talora disciplinata dalla legge, che in modo episodico fissava la durata massima di singoli procedimenti; il che, naturalmente, non garantiva di per sé che l’Amministrazione rispettasse il termine. Più efficace si rivelava la scelta legislativa, anche in tal caso episodica, di attribuire al mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento il significato di una vera e propria decisione sulla domanda: talora di accoglimento, talora di rigetto (silenzio-assenso, silenzio-rigetto). Il rigetto implicito poteva essere impugnato, proprio come un rigetto esplicito.
Tuttavia, nei molti casi in cui non era previsto un termine, così come in quelli in cui un termine era fissato ma non era anche sancita una valenza provvedimentale della sua violazione, si poneva un grave problema di tutela della situazione giuridica di aspettativa del richiedente. Il risultato migliore raggiungibile era, comunque, solo una sentenza che dichiarasse l’obbligo della p.a. di pronunciarsi, in un senso o nell’altro. La trafila era, però, lunga e dispendiosa: diffida a provvedere e ricorso al Giudice nel caso di ulteriore inerzia, con esclusione, in ogni caso, di una pronuncia giudiziale sul merito della domanda (ossia sulla spettanza o meno dell’atto richiesto).
Nel 1990 la L. 241, dettando la disciplina generale del procedimento, tentava di circoscrivere queste situazioni patologiche sancendo l’obbligo di conclusione del procedimento mediante atto espresso, da assumersi entro un termine che ciascuna p.a. avrebbe dovuto autonomamente stabilire e, in mancanza, entro il termine massimo di 90 giorni (poi ridotto a 30). Nella stessa prospettiva la legge generalizzava, con circospezione, la regola del silenzio-assenso.
Queste pur rilevanti innovazioni non mutavano però in modo sensibile il sistema di tutela della situazione giuridica del richiedente deluso. Al di fuori dei casi di silenzio significativo (assenso o rigetto), infatti, l’inerzia della p.a. restava un semplice comportamento omissivo, un "non-atto", sul quale il Giudice amministrativo aveva pochi margini di manovra. Esso poteva, infatti, rimuovere atti illegittimi ma non anche accertare e dichiarare l’obbligo della p.a. di porre in essere un certo comportamento, tanto meno di adottare un certo atto con un certo contenuto: la p.a., solo la p.a., poteva deciderlo nella sua sfera di discrezionalità, e in ciò doveva essere autonoma.
Una giurisprudenza più avvertita tentò allora di diversificare le situazioni: la discrezionalità della p.a. poteva e doveva essere salvaguardata, ma solo se sussisteva in concreto; se, invece, il rilascio dell’atto era, nel caso specifico, doveroso, allora la pubblica amministrazione doveva emetterlo e il Giudice ben poteva ordinarglielo senza calpestare i suoi spazi riservati. Ma imporre alla p.a. quale contenuto immettere nell’atto restava precluso.
Oggi, facendo tesoro della lunga elaborazione ora riassunta, il Codice del processo amministrativo del 2010 assegna al Giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto non solo l’esercizio, ma anche il mancato esercizio del potere (art. 7); e prevede, agli artt. 31 e 117, una specifica azione avverso il silenzio o l’inerzia della p.a.. Il soggetto che lamenti l’inadempimento dell’Autorità interpellata può infatti chiedere al Giudice di accertare e dichiarare la sussistenza nel caso concreto dell’obbligo della p.a. di concludere il procedimento in modo espresso, ossia di provvedere sull’istanza (ancora) pendente: insomma di condannare la p.a. a pronunciarsi, fatto salvo il contenuto discrezionale dell’atto.
Nella prospettiva, lodevole, di estendere la tutela del privato il nuovo Codice consente al Giudice di pronunziarsi anche sulla spettanza o meno del provvedimento richiesto, purché l’istruttoria sia completa e la risposta sia a contenuto vincolato (non coinvolga valutazioni di opportunità) ovvero, pur avendo contenuto discrezionale, le valutazioni di opportunità o inopportunità siano già state esperite. Se invece residuano margini di apprezzamento discrezionale, il Giudice deve rispettare gli spazi valutativi della p.a., che pur essendo condannata ad emettere l’atto può ancora decidere quale contenuto immettergli.
Una sentenza del T.A.R. Sardegna del maggio 2016 esamina queste problematiche in un caso fin emblematico di inerzia della p.a., originata da una richiesta dell’indennizzo previsto dalla legge per il caso di sopravvenuta impossibilità di utilizzare per lo svolgimento di un’attività economica (nella specie un tratto di mare per lo svolgimento di corsi subacquei e di escursioni) un bene pubblico assoggettato a servitù militari.
Una prima domanda di indennizzo veniva illegittimamente respinta dall’Amministrazione militare per il che il T.A.R. annullava il rigetto; una seconda e una terza domanda non avevano miglior esito in quanto l’Amministrazione "prendeva tempo"; anche una quarta e una quinta domanda conseguivano risposte soprassessorie (risposte, cioè, che non dicevano né sì né no, ma rimandavano a pronunzie di Autorità superiori); altre due domande - la sesta e la settima (!) - erano indirizzate all’organo titolare del potere sostitutivo; censurando l’inerzia anche di quest’ultimo il T.A.R. Cagliari, nuovamente adito, stabiliva anzitutto che «l’obbligo dell’amministrazione di provvedere sull’istanza del privato sussiste (...) qualora quest’ultimo sia titolare di una posizione qualificata ed abbia un interesse concreto ed attuale ad ottenere il provvedimento richiesto». Il che ben si comprende atteso che senza un interesse concreto ed attuale (il richiedente non era uno qualunque ma un imprenditore che usava il mare per lavorare) la posizione del richiedente non può dirsi "qualificata" e tale assetto non giustifica l’impegno amministrativo sotteso al provvedere.
Aggiungeva il T.A.R. che «il silenzio rilevante ai fini del rito ex art. 31 cod. proc. amm. sussiste laddove la p.a. contravvenga ad un preciso obbligo di provvedere»; obbligo che, come visto, deriva dalla posizione giuridica qualificata, perchè differenziata, del richiedente.
Chiarito che nel caso deciso la p.a. aveva l’obbligo di provvedere, però, il T.A.R. si fermava; la decisione circa la spettanza o meno dell’indennizzo ed eventualmente la sua misura, infatti, mancando di parametri fissi di legge, non potevano che spettare all’Amministrazione, alla quale in definitiva il Giudice rimetteva il richiedente, pur vittorioso: «In casi come quello qui all’esame, in linea generale, il giudice amministrativo non può andare oltre la declaratoria d’illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere, mentre gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all’Amministrazione stessa».
La sentenza segna la vittoria di una battaglia; non della guerra. La (omessa ma doverosa) pronuncia dell’Amministrazione fatta salva dal T.A.R., infatti, ben potrebbe avere un tenore non soddisfacente per l’interessato, che in tal caso ben potrebbe adire nuovamente il Giudice per fargli valutare la legittimità o meno dell’atto infine assunto.
Nel sistema attuale, fondato sulla separazione dei potere, questa vicenda è emblematica e mostra i precisi confini del potere giudiziario nei confronti di quello esecutivo. È bene che questa separazione resti, anche se i tempi dovrebbero essere accorciati. Oggi, comunque, il contrasto dell’inerzia della p.a. risulta, nel complesso, assai più efficace di ieri.
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