Il passaggio generazionale (3° parte)
Il passaggio generazionale: trasferimento d'impresa. Il patto di famiglia
Le aziende familiari rappresentano in tutti i continenti una componente fondamentale dell’economia. In Europa si stima che circa 85% delle aziende rientrino in tale categoria, e tale percentuale rimane pressoché inalterata anche in Italia, dove ci differenziamo rispetto ai nostri colleghi europei per il minor ricorso a manager esterni: il 66% delle aziende familiari italiane ha tutto il management composto da membri della famiglia, mentre in Francia questa situazione si riscontra nel 26% delle aziende familiari e nel Regno Unito solo nel 10%.
Questi due elementi di natura statistica, con altri di natura psicologica e sociale che affronteremo in seguito, rendono il passaggio generazionale nelle nostre imprese una partita ancora tutta da vincere tanto che, è certamente un luogo comune dire che "la prima generazione crea, la seconda continua e la terza distrugge", ma le analisi più aggiornate evidenziano che in Italia i rischi per la continuità dell’impresa, al momento del cambio di timoniere, sono molto concreti e che solo il 24% circa delle aziende sopravvive al trasferimento dalla prima alla seconda generazione, percentuale che si riduce a circa il 14% nel secondo passaggio (fonte indagine Camera di Commercio).
Tornando sugli aspetti psicologici e sociali, bisogna dire che molto spesso il fondatore vive l’impresa come un figlio, la considera una sua creatura alla quale ha dedicato la quasi totalità della vita, per farla crescere e sviluppare. Per lui lasciarla è come staccarsi dal suo primo amore.
Frequentemente, pur essendo in età avanzata, ritiene di essere l’unico in grado di poterla gestire al meglio, non considera i figli pronti a succedergli, teme di creare rivalità tra loro, e così posticipa nel tempo il passaggio del testimone. Molte volte non prende in considerazione la possibilità di ricorrere a manager esterni, anche quando potrebbero portare un elevato valore aggiunto all’impresa, considerando famiglia, patrimonio ed azienda un tutt’uno, un’entità indivisibile, dove non far entrare estranei.
Non intendo dire che tutti gli imprenditori italiani ragionino in questa maniera, ma sta di fatto che il Consiglio Nazionale del Notariato afferma che solo il 2% degli imprenditori affronta il problema della pianificazione successoria.
Un istituto giuridico che può essere di grande aiuto in questa situazione è il "patto di famiglia", introdotto dal legislatore nel nostro ordinamento con l'emanazione della L. 14 febbraio 2006, n. 55, cioè "il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti" (art.768 bis c.c.).
La finalità del patto di famiglia, infatti, è quella di rendere sicura la conduzione nella vita dell’impresa, attraverso:
l'individuazione di uno o più discendenti (figli, nipoti) dell'imprenditore considerati in grado di prolungarne nel tempo la gestione;
il trasferimento al prescelto, o ai prescelti, dell'azienda o delle partecipazioni (se l'impresa è svolta attraverso una struttura societaria);
la liquidazione "a compenso" dei diritti economici dei legittimari non assegnatari dell’azienda.
A pena di nullità, il contratto deve essere concluso per atto pubblico e vi devono partecipare, secondo quanto previsto dall'art. 768 quater, comma 1 c.c., non solo il disponente e il beneficiario, ma anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell'imprenditore.
Il contratto prevede, inoltre, che i legittimari - se non vi abbiano rinunciato - ricevano dagli assegnatari (cioè i discendenti che abbiano ricevuto l'azienda) una somma di denaro (o dei beni in natura) che corrispondano alle quote che a loro spetterebbero ex art. 536 e ss. c.c., cioè le quote che gli spetterebbero in quanto legittimari.
Al fine di garantire la solidità dell'assetto patrimoniale concepito dall'imprenditore, i beni destinati con il patto sono esclusi dall'obbligo della collazione e non sono soggetti all'azione di riduzione.
In sostanza, l'assegnazione effettuata tramite il patto di famiglia, unico esempio di patto successorio lecito nel nostro ordinamento, è definitiva. E ciò vale tanto per gli assegnatari dei beni d'impresa, quanto per gli altri legittimari. Al momento dell'apertura della successione dell'imprenditore non potranno essere esercitate azioni, o effettuate operazioni, che possano sovvertire l'assetto patrimoniale deciso con il patto di famiglia.
Ricordiamo, infine, che il patto può essere sciolto o modificato dagli stessi che l'hanno stipulato, o mediante un nuovo contratto, o con un recesso, solo, però, se previsto nel patto e certificato da un notaio (art. 768 septies c.c.).
Questi due elementi di natura statistica, con altri di natura psicologica e sociale che affronteremo in seguito, rendono il passaggio generazionale nelle nostre imprese una partita ancora tutta da vincere tanto che, è certamente un luogo comune dire che "la prima generazione crea, la seconda continua e la terza distrugge", ma le analisi più aggiornate evidenziano che in Italia i rischi per la continuità dell’impresa, al momento del cambio di timoniere, sono molto concreti e che solo il 24% circa delle aziende sopravvive al trasferimento dalla prima alla seconda generazione, percentuale che si riduce a circa il 14% nel secondo passaggio (fonte indagine Camera di Commercio).
Tornando sugli aspetti psicologici e sociali, bisogna dire che molto spesso il fondatore vive l’impresa come un figlio, la considera una sua creatura alla quale ha dedicato la quasi totalità della vita, per farla crescere e sviluppare. Per lui lasciarla è come staccarsi dal suo primo amore.
Frequentemente, pur essendo in età avanzata, ritiene di essere l’unico in grado di poterla gestire al meglio, non considera i figli pronti a succedergli, teme di creare rivalità tra loro, e così posticipa nel tempo il passaggio del testimone. Molte volte non prende in considerazione la possibilità di ricorrere a manager esterni, anche quando potrebbero portare un elevato valore aggiunto all’impresa, considerando famiglia, patrimonio ed azienda un tutt’uno, un’entità indivisibile, dove non far entrare estranei.
Non intendo dire che tutti gli imprenditori italiani ragionino in questa maniera, ma sta di fatto che il Consiglio Nazionale del Notariato afferma che solo il 2% degli imprenditori affronta il problema della pianificazione successoria.
Un istituto giuridico che può essere di grande aiuto in questa situazione è il "patto di famiglia", introdotto dal legislatore nel nostro ordinamento con l'emanazione della L. 14 febbraio 2006, n. 55, cioè "il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti" (art.768 bis c.c.).
La finalità del patto di famiglia, infatti, è quella di rendere sicura la conduzione nella vita dell’impresa, attraverso:
l'individuazione di uno o più discendenti (figli, nipoti) dell'imprenditore considerati in grado di prolungarne nel tempo la gestione;
il trasferimento al prescelto, o ai prescelti, dell'azienda o delle partecipazioni (se l'impresa è svolta attraverso una struttura societaria);
la liquidazione "a compenso" dei diritti economici dei legittimari non assegnatari dell’azienda.
A pena di nullità, il contratto deve essere concluso per atto pubblico e vi devono partecipare, secondo quanto previsto dall'art. 768 quater, comma 1 c.c., non solo il disponente e il beneficiario, ma anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell'imprenditore.
Il contratto prevede, inoltre, che i legittimari - se non vi abbiano rinunciato - ricevano dagli assegnatari (cioè i discendenti che abbiano ricevuto l'azienda) una somma di denaro (o dei beni in natura) che corrispondano alle quote che a loro spetterebbero ex art. 536 e ss. c.c., cioè le quote che gli spetterebbero in quanto legittimari.
Al fine di garantire la solidità dell'assetto patrimoniale concepito dall'imprenditore, i beni destinati con il patto sono esclusi dall'obbligo della collazione e non sono soggetti all'azione di riduzione.
In sostanza, l'assegnazione effettuata tramite il patto di famiglia, unico esempio di patto successorio lecito nel nostro ordinamento, è definitiva. E ciò vale tanto per gli assegnatari dei beni d'impresa, quanto per gli altri legittimari. Al momento dell'apertura della successione dell'imprenditore non potranno essere esercitate azioni, o effettuate operazioni, che possano sovvertire l'assetto patrimoniale deciso con il patto di famiglia.
Ricordiamo, infine, che il patto può essere sciolto o modificato dagli stessi che l'hanno stipulato, o mediante un nuovo contratto, o con un recesso, solo, però, se previsto nel patto e certificato da un notaio (art. 768 septies c.c.).
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