L’intermittenza fino a 25 anni è legittima


La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto legittima la normativa italiana in tema di lavoro intermittente. Così anche la nostra Cassazione
L’intermittenza fino a 25 anni è legittima
Sulla legittimità della normativa italiana in materia di lavoro intermittente si era già espressa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea all’indomani della reintroduzione dei voucher lavoro. La disposizione prevedeva, e prevede, l’assunzione per questa tipologia contrattuale di giovani che abbiano meno di ventiquattro anni e che la prestazione si svolga entro il compimento del venticinquesimo anno di età. Secondo i Giudici di Strasburgo il recesso datoriale al raggiungimento del traguardo, o meglio limite, anagrafico del lavoratore non delineava alcun trattamento discriminatorio. Le ragioni della non discriminazione erano da rinvenirsi nelle politiche di supporto all’attuale mercato di lavoro nonché di espansione con particolare riguardo ai giovani. Le imprese, infatti, possono essere più incentivate ad assumere in ragione di uno strumento poco vincolante, quale l’intermittenza. Il caso era di un giovane assunto da una multinazionale di moda, ma licenziato al compimento del venticinquesimo anno. Il ricorso del lavoratore era stato dapprima rigettato, poi accolto in appello, infine la Corte UE aveva sancito la legittimità del recesso per le ragioni anzidette. Ieri si è pronunciata, infine, la Corte di Cassazione sulla vicenda. Il giudizio è conforme a quanto stabilito dai Giudici Europei, ovvero che la disciplina del lavoro intermittente, consentendo il licenziamento al compimento del limite anagrafico prestabilito, è compatibile con il divieto di discriminazione anagrafica. Il fatto che un datore di lavoro ricorra a tipologie contrattuali flessibili e poco onerose coincide con la politica di tutela e di inclusione della categoria più esposta all’esclusione. Gli Ermellini si sono richiamati anche all’art. 3 della Costituzione per dare ragione di quanto sancito a livello europeo, ovvero che il principio di parità di trattamento può essere derogato in presenza di giustificate finalità sociali.

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di Lorella Farina

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