Il danno non patrimoniale può essere dedotto anche da presunzioni semplici


Il danno non patrimoniale per la lesione di diritti inviolabili della persona è risarcibile. Condannata la società colpevole di aver offeso un manager per la sua presunta omosessualità
Il danno non patrimoniale può essere dedotto anche da presunzioni semplici


Il danno non patrimoniale può essere provato anche da presunzioni semplici alle quali il giudice “può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale” da lui detenuto.

E’ quanto afferma la Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. lav., sentenza 20 dicembre 2018 – 19 febbraio 2019, n. 4815) che si è trovata a dirimere il caso di un manager che, durante gli anni di attività lavorativa fino al licenziamento, è stato ripetutamente e continuativamente offeso dal legale rappresentante della società per la quale lavorava a causa della sua presunta omosessualità. E ciò avveniva alla presenza di colleghi e dipendenti dell’azienda.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Venezia, alla quale la società aveva proposto ricorso dopo il primo grado, avevano dato ragione al manager riconoscendogli il risarcimento per danno non patrimoniale.

Ugualmente, la Cassazione ha respinto il ricorso della società confermando le precedenti sentenze di merito.

Uno dei motivi di ricorso della società in Cassazione si basava sul mancato accertamento, da parte dei giudici di merito, dei fatti delle presunte offese nei confronti del manager, chiarendo, tra l’altro, che non di offese si trattava, ma di epiteti scherzosi in un clima cameratesco, ai quali, infine, il manager non si era mai ribellato.

Ma gli ermellini hanno respinto tale ipotesi chiarendo che “il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. - anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità”.

Nel caso in questione, le presunzioni sulla condotta datoriale si basavano sulle deposizioni dei testimoni, sia del manager (in qualità di dipendenti al momento dei fatti), sia dei testi addotti da parte datoriale, oltre che dall’interrogatorio libero del manager offeso.

Secondo la Suprema Corte, tali dichiarazioni sono servite ai giudici di merito nella formulazione “del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta pertanto al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità”.

Dunque, nel caso specifico, gli ermellini hanno affermato come la Corte di Appello abbia desunto il danno non patrimoniale subito dal lavoratore grazie agli “elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano arrecate” ai danni dell’uomo che, tra l’altro, non reagiva data la sua condizione di subordinazione (pur essendo un manager era subordinato gerarchicamente al legale rappresentate della società).

Dunque, la società è stata condannata per aver arrecato "concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire".

 

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