Affrontare perdite e lutti


Ci sono eventi della vita che costringono ad affrontare un carico di cambiamenti e di emozioni che possono sembrare invalicabili. A volte serve aiuto.
Affrontare perdite e lutti
Nella vita di ogni persona prima o poi si presenta una dura prova da affrontare: perdere ciò che ci è caro.

La morte di qualcuno è la perdita più dolorosa, decreta una fine, un’assenza che non ha possibilità di remissione. Esistono però anche altre perdite, dalle quali prendono corpo altrettante forme di lutto.

Un trasferimento, un divorzio, un fallimento, un aborto, un’asportazione chirurgica, sono solo alcuni esempi di perdite che incidono notevolmente sulla vita emotiva e psichica di chi le vive; esse tracciano un segno che noi possiamo: ascoltare, minimizzare oppure ignorare, ma qualunque sia la scelta che facciamo, essa non annulla la perdita, né impedisce il fatto che un evento luttuoso ci costringe a vivere fasi che, a tutti i livelli, possono dirsi fortemente impegnative.

C’è il momento della confusione, quando ci si sente come anestetizzati e domina il "non è possibile"; c’è il momento della rabbia, quando ci si sente vittime di un’ingiustizia inflittaci per crudeltà o indifferenza; c’è il momento del sanguinamento, che porta a ripiegarsi e che fa sbiadire il senso delle cose... Poi lentamente, timidamente, si fa strada un altro momento, quando si depongono le armi e si accetta. È proprio in questo momento che ciò che è stato perduto ritorna a noi e diviene presente nella sua assenza. Il difficile è lasciare che questi momenti si avvicendino, che seguano gli uni agli altri, come fa l’acqua di un fiume quando scorre verso il mare.

Il comune denominatore è che quando si sente un vuoto, l’atto con cui si cerca di porre rimedio è riempirlo ed in effetti, in teoria, sembra effettivamente questa la cosa giusta da fare, ma come spesso succede il punto nodale delle cose NON è teorico bensì pratico. Vediamo di chiarire meglio.

Se si cerca di chiudere un vuoto riempiendolo, implicitamente si stanno affermando due premesse: la prima è che NON si accetta che esso esista e la seconda è che si spera di trovare il modo di annullarlo una volta per tutte. Con tali premesse il vuoto sarà dunque sempre considerato un nemico da combattere ed il pieno sarà sempre considerato il miraggio da raggiungere.

Il problema però è che nella realtà NON c’è una maniera per riempire definitivamente quel vuoto, perciò provandoci si otterrà come risultato solo un suo allargamento, nonché la conseguente sensazione di non avere scampo. Infatti se il vuoto è considerato segno di qualcosa che manca, ma doveva esserci, è inevitabile che lo penseremo sempre come ingiusto, pertanto alimenteremo l’idea che siamo stati fregati e che qualcuno ci deve qualcosa.

E se invece provassimo a pensare a quel vuoto come ad una caverna in una montagna?

Noi non discutiamo con una caverna, non la giudichiamo sbagliata, semplicemente prendiamo atto che esiste e la esploriamo, ne teniamo conto come parte del panorama naturale che si offre al nostro sguardo, allora difficilmente ci verrebbe in mente di cercare un tappo abbastanza grande e profondo da riempirla.

Perché invece con il nostro vuoto facciamo altrimenti? Il nostro vuoto è esattamente come quella caverna, NON è mancanza, è spazio disponibile, come uno stomaco. Nello stomaco scendono gli alimenti, lì avviene ciò che serve per renderli trasformabili in energia, e poi, dopo qualche ora, ecco che ci si nutre di nuovo. Affinché tutto ciò possa avvenire serve che lo stomaco faccia spazio.

La nostra stessa sopravvivenza dipende da questo, perciò se noi imparassimo a considerare così anche il nostro vuoto scopriremmo che la chiave sta nell’agire per nutrirlo, non per riempirlo.

Una perdita però lacera, svuota, priva e ferisce, ci costringe a vivere stati che se il nostro cervello ci suggerisce temporanei, la nostra "pancia" ci fa sentire come totalizzanti, infiniti, ed è tutto questo a spingere molti a difendersi e a creare un tappo.

Si erigono parentesi, dure come ghisa, entro le quali si stringono quelle perdite e, così rinchiuse, le si seppellisce nel fondo della nostra quotidiana routine, magari rimpinzandola, nell’illusione che possa riempirsi di nuovo... Così accade che un lutto diventi cronico e che quella perdita faccia morire sempre di più anche un pezzetto di noi. Non senza conseguenze.
Riappropriarsi di una perdita per darle voce e senso è quindi il solo modo per onorarla e farle mutare di segno, è la sola maniera per trovare un significato proprio lì dove pareva che non ce ne fosse alcuno, per integrare un dolore nella nostra storia e farne buon uso, anziché nutrire ostinatamente un buco, nel quale rifiutiamo di credere che sia possibile fare fiorire qualcosa.

Riferimenti bibliografici dell’articolo:

Russ Harris, Se il mondo ti crolla addosso, Erickson, Trento 2011
Sibylle Krull, Come affrontare la perdita di una persona cara, Il punto d’incontro, Vicenza 2008
Alba Marcoli, La nonna è ancora morta? Mondadori , Milano 2014

Articolo del:


di Dr.ssa Paola Ancarani

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