Aristotele ed Hegel e un codice troppo "nuovo"
Una breve indagine sistematica sul vigente codice di procedura penale

In un’epoca nella quale le norme non si scolpiscono più nella pietra, come scrive Cordero nella prefazione della sua "Procedura", sentire ancora definire da tanti operatori del diritto "nuovo" uno strumento legislativo in vigore da ben 25 anni non può non produrre un certo effetto e sinanco un qualche sconcerto.
Eppure sono ancora tanti coloro che si "ostinano" a definire, appunto, come "nuovo" il complesso di norme che, nel 1989, la volontà ferrea dell’allora Guardasigilli Vassalli pretese divenisse la trama si cui dovesse intessersi il processo penale nel nostro ordinamento.
Ed in effetti non può revocarsi in dubbio che il codice di procedura penale oggi vigente sia stato sentito come una innovazione profonda nel nostro sistema legislativo ed anzi, per tanti versi, come una autentica rivoluzione copernicana dai più sintetizzata nella formula del passaggio dal cd. Modello inquisitorio a quello accusatorio.
Ora al di là del valore, molto relativo invero, degli schematismi intellettuali va riconosciuto che il "codice Vassalli" ha rappresentato uno straordinario cambiamento nel modo di pensare e di agire degli operatori del diritto penale nel nostro Paese e quindi, come tutti i cambiamenti, ha dovuto subire i colpi di una congerie di forze, che ha tentato di ricondurre nell’alveo dello "status quo ante" i dirompenti principi, che regolavano le norme del primo codice approvato durante l’epoca repubblicana. Una resistenza che solo semplicisticamente, a mio parere, può ascriversi al conservatorismo di una parte notevole dei giuristi italiani, celando, viceversa, motivi più profondi, che, pur emergendo in maniera quasi alluvionale e non ordinata, coglievano il senso di uno stravolgimento autentico nei ruoli e nelle valenze degli attori del processo.
Non a caso, paradossalmente, ad avvertire ed a favorire il tentativo di stravolgere gli assetti del codice del 1989 furono in misura più evidente i Magistrati della Giudicante (e non solo i più anziani peraltro) che i Magistrati della Pubblica Accusa, avendo subito, i Giudicanti, avvertito che il nuovo complesso normativo assegnava loro una posizione molto più "scomoda" rispetto a quella in cui erano collocati sotto l’egida del previgente codice di rito, tanto più in un ordinamento come il nostro che imponeva ed impone loro l’onere di motivare le ragioni delle scelte effettuate.
Ebbene, tali reazioni, che portarono, ad esempio, lungo il corso degli anni novanta, ad un lungo braccio di ferro tra Legislatore e Corte Costituzionale a proposito della formulazione degli articoli 500 e 503 c.p.p., credo divengano comprensibili sol se si rifletta seriamente sulla valenza culturale dei principi che regolano l’attuale rito processuale rispetto al cd. codice Rocco.
Infatti, il codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1931, potrebbe essere considerato il frutto maturo di una logica processuale, che applicava rigorosamente il cd. Metodo deduttivo di aristotelica memoria, secondo una schema che potrebbe essere sintetizzato dal brocardo latino "ex facto, oritur ius".
In altri termini, secondo la logica che permeava il previgente rito processuale, era il "fatto", che andava scandagliato nella sua sussistenza ontologica e dal "fatto" inteso come avvenimento reale ma anche come complesso degli elementi contenuti nell’incarto processuale, andavano desunte tutte le circostanze, giuridiche e non, in forza delle quali il Giudice elaborava la decisione finale.
Non a caso in linguaggio curiale si diceva che "quod non est in actis, non est in mundo".
Da tale visione ne derivava una conclusione assolutamente necessaria ovvero che, rispetto al fatto ed al meccanismo logico della deduzione, le posizioni del Giudice e del Pubblico Ministero andavano viste, considerate e sentite come eguali, essendo entrambe parti pubbliche e, quindi, per definizione "disinteressate" rispetto all’esito della vicenda processuale.
L’uno, il Pubblico Ministero, era chiamato a svolgere "disinteressatamente" le indagini e quindi a formare, assieme peraltro al Giudice Istruttore nel caso di istruzione formale, il fascicolo su cui il Giudice, altra parte pubblica e quindi "disinteressata" anch’essa, avrebbe dovuto in un secondo momento sciogliere il proprio giudizio.
La manifestazione plastica di tale collocazione logico-sistematica era rappresentata dal Giudizio pretorile avanti al quale l’Organo dell’Accusa e l’Organo Giudicante si trovavano ad essere fusi nella stessa persona.
Rispetto a tale schema pertanto l’unico protagonista processuale "extra ordinem" era oggettivamente da individuarsi nel Difensore, il quale era il solo attore processuale chiamato, rectius autorizzato, a valutare il fascicolo attraverso la lente deformata del suo essere a tutela di una parte privata ovvero l’imputato o le altre parti civili eventualmente presenti.
In definitiva, pertanto al Difensore toccava il compito di supplire ai difetti del giudizio deduttivo formulato dal P.M. in ordine ad un determinato fatto, sì da agevolare il compito del Giudice nel dedurre dall’incarto processuale a sua disposizione (e quindi dal fatto) anche elementi giuridici o fattuali che il Pubblico Ministero non era stato in grado di cogliere e, quindi, dedurre.
Tale logica ordinamentale produceva, altresì, effetti notevoli anche nella stessa dialettica tra i soggetti del processo, avendo ricadute notevoli sulla natura e sulla valenza degli stessi a cominciare ad esempio dalla possibilità per i Magistrati di passare, senza restrizione alcuna, dalla funzione Giudicante a quella requirente e viceversa, passaggio considerato non solo assolutamente normale, ma anche per molti versi vantaggioso consentendo ai singoli Magistrati di affinare le capacità di dedurre dal fatto tutti gli elementi o comunque il maggior numero possibile di elementi, che lo stesso era in grado di offrire.
Ovviamente tale assetto finiva con il porre su un piano diverso, anche se non necessariamente di grado inferiore, il Difensore, ponendosi, come si è visto, la funzione defensionale su un livello altro rispetto alle cd. Parti Pubbliche, proprio per il suo essere Portatrice legittima di un interesse dal far valere nel processo ed attraverso il processo.
Un livello ed una distanza ontologica rispetto alle altre parti, che rendeva comprensibili limitazioni, in forza delle quali, per esempio, al Difensore non era riconosciuto alcun diritto di svolgere indagini o meglio alcun diritto di trasfondere "tout court" l’esito di tali indagini nell’incarto processuale se non attraverso la mediazione del Pubblico Ministero o del Giudice Istruttore durante la fase istruttoria (mediante la richiesta di audire alcuni testi o di svolgere alcuni accertamenti) e del Giudice durante la fase dibattimentale, Giudice a cui non a caso il codice Rocco affidava il compito in via esclusiva di esaminare i testi durante il processo.
In altri termini solo attraverso il filtro delle parti pubbliche il Difensore poteva contribuire alla formazione della cd. res iudicanda, limitazione questa niente affatto illogica se valutata nell’ambito di un processo, in cui solo il Difensore aveva l’interesse a che il processo prendesse una certa piega piuttosto che un’altra.
Ovviamente la mia sommaria analisi fa riferimento al tipo del processo per come astrattamente delineato dal codice del 1930, il quale, va detto, non solo era costruito in maniera tecnicamente eccellente, ma rispondeva anche in maniera perfetta ai principi culturali e direi filosofici da cui era imperniato.
Principi, che dico chiaramente, a scanso di equivoci, non ritengo in astratto incompatibili con un ordinamento di tipo democratico come il nostro, purchè, ovviamente al Difensore venga consentito da un lato di partecipare agli atti fondamentali dell’indagine destinati a comporre il fascicolo processuale e dall’altro non si impedisca allo stesso, anche con le mediazioni già viste, di contribuire alla formazione di detto fascicolo
Fatta questa precisazione non può dubitarsi però che il pur fondamentale ruolo del Difensore era, se visto nell’ottica sopra indicata, assolutamente limitato e da guardarsi in tralice e non per ingiustificato pregiudizio dovuto ad inconfessabili sospetti, ma proprio per il suo essere, l’Avvocato, l’unico soggetto portatore di un interesse di parte autorizzato ad accedere nel "sancta sanctorum" del fatto processuale e sinanco a chiederne la modifica e la integrazione.
In definitiva, quella palesata dal codice del 1930, era una logica coerente e scandita in maniera assolutamente chiara ed ordinata, frutto di una meditata scelta ordinamentale, che ha resistito al crollo del regime che lo aveva formato proprio perché era, inutile negarlo, in linea con gli orientamenti culturali che hanno dominato la classe curiale italiana del secolo scorso.
Non a caso la gestazione del nuovo modello processuale è stata tanto avversata e contrastata per qualche decennio da schiere di giureconsulti, la gran parte dei quali di tutto poteva essere accusata tranne che di aver nostalgia per il vecchio regime o di essere portatrice di revanscismi antidemocratici.
In definitiva la logica deduttiva era, e per certi versi rimane, tanto connaturata nel pensiero della maggioranza amplissima degli operatori del diritto italiani che persino nell’ambito del diritto processuale civile, ove la dialettica tra le parti si esplica al massimo grado e dove il Giudice rimane chiaramente terzo rispetto alle stesse anche, se non soprattutto, nella indicazione e nella allegazione dei "facta probanda", si faceva e si fa ancora riferimento al cd. "sillogismo del giudizio" ovvero alla rigorosa applicazione di un metodo conoscitivo di tipo deduttivo, figlio di una logica come quella aristotelica, che evidentemente rappresentava e rappresenta ancora un modello culturale di riferimento per i giuristi italiani.
Ebbene, è su questo quadro culturale che nel 1989 si abbattè come un ciclone il codice Vassalli, codice che, detto esplicitamente, è molto peggio scritto del precedente ed è molto meno figlio di una scelta meditata rispetto a quello del 1930, non essendo frutto consapevole di una scelta di tipo logico - sistematica totalmente diversa rispetto a quella, che permeava il codice di rito abrogato.
In altri termini, se il codice del 1930 si fondava su una logica di tipo deduttivo, il codice del 1989 sembra essere plasmato su canoni logici riconducibili a quelli elaborati dal filosofo tedesco Hegel nella prima parte del secolo diciannovesimo.
In Hegel, infatti, affermata una tesi e posta un’antitesi, tocca alla sintesi dare una soluzione da collocare necessariamente su un piano più alto rispetto alle proposizioni scandite dalle prime due asserzioni.
Asserzioni che hanno, però, tanto la tesi che l`antitesi, sul piano logico la medesima valenza, il medesimo peso ed il medesimo valore.
La sintesi viceversa è uno stilema ontologicamente diverso rispetto ai primi due momenti della elaborazione razionale.
Ed infatti, nel nostro nuovo rito processuale penale l’accusa e la difesa son posti su un piano, almeno teoricamente, paritario, mentre è il Giudice a dover, mercè la propria sentenza, sciogliere tale conflitto.
Ed infatti, se il vecchio modello processuale mi piaceva stigmatizzarlo con la formula "ex facto oritur ius", il nuovo secondo va plasticamente raffigurato secondo un altro brocardo latino ovvero: "narra mihi factum, tibi dabo ius".
In altri termini, se nel codice previgente l’accento era da porsi sul factum e sulla sua oggettività, l’attuale codificazione pone l’accento più sulla narrazione che sul fatto come attesta l’articolo 493 c.p.p. che recita testualmente: "Il pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato nell’ordine indicano i fatti che intendono provare e chiedono l’ammissione delle prove...".
Un mutamento di accento e di prospettiva, come si vede, di notevole portata, in quanto indicare i fatti da provare è cosa ben diversa dal fatto già cristallizzato nella sua larga parte e, soprattutto, introduce un margine di soggettività, che il vecchio codice non conosceva e che, anzi, rigettava in radice.
Infatti, non solo la narrazione, rectius la indicazione, è soggettiva e non oggettiva, ma soprattutto rispetto a tale "narrazione" non vi è differenza tra "is qui dicit" (il pubblico ministero) e "is qui negat (il difensore), mentre chi è chiamato a "dare ius" (il Giudice) è posto oggettivamente su un piano ontologicamente diverso rispetto ai primi due.
Un piano più alto è vero ma anche, e forse proprio per tale ragione, più esposto ai colpi della responsabilità e dell’errore.
E per comprendere perfettamente quanto sia pregnante tale sensazione basti pensare alla circostanza che mentre nel previgente modello processuale il Giudice veniva chiamato a dedurre il giudizio da un "fatto" che conosceva perfettamente avendo avuto sin dal primo momento "tra le mani" l’intero fascicolo processuale come collazionato dal Giudice Istruttore al termine della fase appunto istruttoria, con il codice Vassalli invece deve decidere sulla mera rappresentazione operata da altri, P.M. e Difensore, di un fatto che Egli non conosce se non sommariamente e di cui acquisirà conoscenza solo nella misura in cui la "narrazione" operata dagli altri attori del processo sarà, attraverso l’audizione dei testi o la lettura degli atti consentiti, completa ed esaustiva.
Una posizione, quella del Giudice, come si coglie in maniera evidente, assolutamente scomoda, elemento questo che spiega la ragione per la quale i Giudici più che i Pubblici Ministeri abbiano rappresentato il vero baluardo della conservazione attraverso il richiamo a concetti come il principio della conservazione della prova, della necessaria ricerca della verità effettiva e, soprattutto, con la ostentata ritrosia ad accettare le regole del momento più alto ma anche più controverso e delicato del rito accusatorio, ovvero l’esame ed il controesame dei testimoni.
Il Giudice infatti, nel suo conato di conoscere quanto più possibile del fatto su cui dovrà decidere, finisce spesso con l’alterare tale schema processuale impegnato com’è in maniera onnivora ad acquisire qualsivoglia elemento che possa aiutarlo al momento della decisione.
Così facendo però rischia di sostituire alla narrazione operata dalle parti una "propria" narrazione del fatto, circostanza questa pericolosissima, in quanto il Decidente del fatto conosce, o meglio, dovrebbe conoscere meno delle altre parti, con il risultato quindi di stravolgere spesso la propria funzione confondendola con quella delle altre parti ed appiattendola spessissimo su quella del P.M. che, in quanto parte pubblica, sente naturaliter più vicina.
Non a caso, nell’ordinamento anglosassone tale pericolo viene evitato attraverso l’intervento di un quarto attore processuale ovvero la Giuria, la quale non interviene mai nell’agone dibattimentale se non al momento in cui, con giudizio assolutamente privo di motivazione, valuta l’imputato colpevole o non colpevole del fatto reato contestatogli.
Io non propendo per tale soluzione, che creerebbe molti più problemi di quanti non ne risolva, ma non vi è dubbio che è proprio la funzione del Giudice il vero nervo scoperto su cui ruotano molte delle deviazioni e delle storture che si evidenziano nella pratica attuazione del "nuovo" codice di procedura penale, in quanto il Codice Vassalli obbliga, come detto, i Giudici a decidere su una "rappresentazione" del fatto operata da terzi con tutti i limiti connessi a tale impostazione.
In definitiva, pertanto, è la logica del Codice ad imporre la separazione effettiva, e non solo funzionale, tra i Giudici ed i Rappresentanti della Pubblica Accusa essendo tale separazione il passo imprescindibile per ricondurre il ruolo svolto dal Decidente a quello immaginato dagli estensori del sistema processuale vigente, ovvero quella di un Arbitro che disciplina le parti nella composizione della narrazione del fatto da giudicare, narrazione su cui il suo potere di interferenza va ritenuto eccezionale, in quanto, ove così non fosse, svilirebbe il suo essere espressione della sintesi, ma finirebbe con l’essere espressione anch’egli di una tesi, che la circostanza di essere espressa per ultima non renderebbe certo più affidabile delle altre palesatesi nell’agone processuale.
Eppure sono ancora tanti coloro che si "ostinano" a definire, appunto, come "nuovo" il complesso di norme che, nel 1989, la volontà ferrea dell’allora Guardasigilli Vassalli pretese divenisse la trama si cui dovesse intessersi il processo penale nel nostro ordinamento.
Ed in effetti non può revocarsi in dubbio che il codice di procedura penale oggi vigente sia stato sentito come una innovazione profonda nel nostro sistema legislativo ed anzi, per tanti versi, come una autentica rivoluzione copernicana dai più sintetizzata nella formula del passaggio dal cd. Modello inquisitorio a quello accusatorio.
Ora al di là del valore, molto relativo invero, degli schematismi intellettuali va riconosciuto che il "codice Vassalli" ha rappresentato uno straordinario cambiamento nel modo di pensare e di agire degli operatori del diritto penale nel nostro Paese e quindi, come tutti i cambiamenti, ha dovuto subire i colpi di una congerie di forze, che ha tentato di ricondurre nell’alveo dello "status quo ante" i dirompenti principi, che regolavano le norme del primo codice approvato durante l’epoca repubblicana. Una resistenza che solo semplicisticamente, a mio parere, può ascriversi al conservatorismo di una parte notevole dei giuristi italiani, celando, viceversa, motivi più profondi, che, pur emergendo in maniera quasi alluvionale e non ordinata, coglievano il senso di uno stravolgimento autentico nei ruoli e nelle valenze degli attori del processo.
Non a caso, paradossalmente, ad avvertire ed a favorire il tentativo di stravolgere gli assetti del codice del 1989 furono in misura più evidente i Magistrati della Giudicante (e non solo i più anziani peraltro) che i Magistrati della Pubblica Accusa, avendo subito, i Giudicanti, avvertito che il nuovo complesso normativo assegnava loro una posizione molto più "scomoda" rispetto a quella in cui erano collocati sotto l’egida del previgente codice di rito, tanto più in un ordinamento come il nostro che imponeva ed impone loro l’onere di motivare le ragioni delle scelte effettuate.
Ebbene, tali reazioni, che portarono, ad esempio, lungo il corso degli anni novanta, ad un lungo braccio di ferro tra Legislatore e Corte Costituzionale a proposito della formulazione degli articoli 500 e 503 c.p.p., credo divengano comprensibili sol se si rifletta seriamente sulla valenza culturale dei principi che regolano l’attuale rito processuale rispetto al cd. codice Rocco.
Infatti, il codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1931, potrebbe essere considerato il frutto maturo di una logica processuale, che applicava rigorosamente il cd. Metodo deduttivo di aristotelica memoria, secondo una schema che potrebbe essere sintetizzato dal brocardo latino "ex facto, oritur ius".
In altri termini, secondo la logica che permeava il previgente rito processuale, era il "fatto", che andava scandagliato nella sua sussistenza ontologica e dal "fatto" inteso come avvenimento reale ma anche come complesso degli elementi contenuti nell’incarto processuale, andavano desunte tutte le circostanze, giuridiche e non, in forza delle quali il Giudice elaborava la decisione finale.
Non a caso in linguaggio curiale si diceva che "quod non est in actis, non est in mundo".
Da tale visione ne derivava una conclusione assolutamente necessaria ovvero che, rispetto al fatto ed al meccanismo logico della deduzione, le posizioni del Giudice e del Pubblico Ministero andavano viste, considerate e sentite come eguali, essendo entrambe parti pubbliche e, quindi, per definizione "disinteressate" rispetto all’esito della vicenda processuale.
L’uno, il Pubblico Ministero, era chiamato a svolgere "disinteressatamente" le indagini e quindi a formare, assieme peraltro al Giudice Istruttore nel caso di istruzione formale, il fascicolo su cui il Giudice, altra parte pubblica e quindi "disinteressata" anch’essa, avrebbe dovuto in un secondo momento sciogliere il proprio giudizio.
La manifestazione plastica di tale collocazione logico-sistematica era rappresentata dal Giudizio pretorile avanti al quale l’Organo dell’Accusa e l’Organo Giudicante si trovavano ad essere fusi nella stessa persona.
Rispetto a tale schema pertanto l’unico protagonista processuale "extra ordinem" era oggettivamente da individuarsi nel Difensore, il quale era il solo attore processuale chiamato, rectius autorizzato, a valutare il fascicolo attraverso la lente deformata del suo essere a tutela di una parte privata ovvero l’imputato o le altre parti civili eventualmente presenti.
In definitiva, pertanto al Difensore toccava il compito di supplire ai difetti del giudizio deduttivo formulato dal P.M. in ordine ad un determinato fatto, sì da agevolare il compito del Giudice nel dedurre dall’incarto processuale a sua disposizione (e quindi dal fatto) anche elementi giuridici o fattuali che il Pubblico Ministero non era stato in grado di cogliere e, quindi, dedurre.
Tale logica ordinamentale produceva, altresì, effetti notevoli anche nella stessa dialettica tra i soggetti del processo, avendo ricadute notevoli sulla natura e sulla valenza degli stessi a cominciare ad esempio dalla possibilità per i Magistrati di passare, senza restrizione alcuna, dalla funzione Giudicante a quella requirente e viceversa, passaggio considerato non solo assolutamente normale, ma anche per molti versi vantaggioso consentendo ai singoli Magistrati di affinare le capacità di dedurre dal fatto tutti gli elementi o comunque il maggior numero possibile di elementi, che lo stesso era in grado di offrire.
Ovviamente tale assetto finiva con il porre su un piano diverso, anche se non necessariamente di grado inferiore, il Difensore, ponendosi, come si è visto, la funzione defensionale su un livello altro rispetto alle cd. Parti Pubbliche, proprio per il suo essere Portatrice legittima di un interesse dal far valere nel processo ed attraverso il processo.
Un livello ed una distanza ontologica rispetto alle altre parti, che rendeva comprensibili limitazioni, in forza delle quali, per esempio, al Difensore non era riconosciuto alcun diritto di svolgere indagini o meglio alcun diritto di trasfondere "tout court" l’esito di tali indagini nell’incarto processuale se non attraverso la mediazione del Pubblico Ministero o del Giudice Istruttore durante la fase istruttoria (mediante la richiesta di audire alcuni testi o di svolgere alcuni accertamenti) e del Giudice durante la fase dibattimentale, Giudice a cui non a caso il codice Rocco affidava il compito in via esclusiva di esaminare i testi durante il processo.
In altri termini solo attraverso il filtro delle parti pubbliche il Difensore poteva contribuire alla formazione della cd. res iudicanda, limitazione questa niente affatto illogica se valutata nell’ambito di un processo, in cui solo il Difensore aveva l’interesse a che il processo prendesse una certa piega piuttosto che un’altra.
Ovviamente la mia sommaria analisi fa riferimento al tipo del processo per come astrattamente delineato dal codice del 1930, il quale, va detto, non solo era costruito in maniera tecnicamente eccellente, ma rispondeva anche in maniera perfetta ai principi culturali e direi filosofici da cui era imperniato.
Principi, che dico chiaramente, a scanso di equivoci, non ritengo in astratto incompatibili con un ordinamento di tipo democratico come il nostro, purchè, ovviamente al Difensore venga consentito da un lato di partecipare agli atti fondamentali dell’indagine destinati a comporre il fascicolo processuale e dall’altro non si impedisca allo stesso, anche con le mediazioni già viste, di contribuire alla formazione di detto fascicolo
Fatta questa precisazione non può dubitarsi però che il pur fondamentale ruolo del Difensore era, se visto nell’ottica sopra indicata, assolutamente limitato e da guardarsi in tralice e non per ingiustificato pregiudizio dovuto ad inconfessabili sospetti, ma proprio per il suo essere, l’Avvocato, l’unico soggetto portatore di un interesse di parte autorizzato ad accedere nel "sancta sanctorum" del fatto processuale e sinanco a chiederne la modifica e la integrazione.
In definitiva, quella palesata dal codice del 1930, era una logica coerente e scandita in maniera assolutamente chiara ed ordinata, frutto di una meditata scelta ordinamentale, che ha resistito al crollo del regime che lo aveva formato proprio perché era, inutile negarlo, in linea con gli orientamenti culturali che hanno dominato la classe curiale italiana del secolo scorso.
Non a caso la gestazione del nuovo modello processuale è stata tanto avversata e contrastata per qualche decennio da schiere di giureconsulti, la gran parte dei quali di tutto poteva essere accusata tranne che di aver nostalgia per il vecchio regime o di essere portatrice di revanscismi antidemocratici.
In definitiva la logica deduttiva era, e per certi versi rimane, tanto connaturata nel pensiero della maggioranza amplissima degli operatori del diritto italiani che persino nell’ambito del diritto processuale civile, ove la dialettica tra le parti si esplica al massimo grado e dove il Giudice rimane chiaramente terzo rispetto alle stesse anche, se non soprattutto, nella indicazione e nella allegazione dei "facta probanda", si faceva e si fa ancora riferimento al cd. "sillogismo del giudizio" ovvero alla rigorosa applicazione di un metodo conoscitivo di tipo deduttivo, figlio di una logica come quella aristotelica, che evidentemente rappresentava e rappresenta ancora un modello culturale di riferimento per i giuristi italiani.
Ebbene, è su questo quadro culturale che nel 1989 si abbattè come un ciclone il codice Vassalli, codice che, detto esplicitamente, è molto peggio scritto del precedente ed è molto meno figlio di una scelta meditata rispetto a quello del 1930, non essendo frutto consapevole di una scelta di tipo logico - sistematica totalmente diversa rispetto a quella, che permeava il codice di rito abrogato.
In altri termini, se il codice del 1930 si fondava su una logica di tipo deduttivo, il codice del 1989 sembra essere plasmato su canoni logici riconducibili a quelli elaborati dal filosofo tedesco Hegel nella prima parte del secolo diciannovesimo.
In Hegel, infatti, affermata una tesi e posta un’antitesi, tocca alla sintesi dare una soluzione da collocare necessariamente su un piano più alto rispetto alle proposizioni scandite dalle prime due asserzioni.
Asserzioni che hanno, però, tanto la tesi che l`antitesi, sul piano logico la medesima valenza, il medesimo peso ed il medesimo valore.
La sintesi viceversa è uno stilema ontologicamente diverso rispetto ai primi due momenti della elaborazione razionale.
Ed infatti, nel nostro nuovo rito processuale penale l’accusa e la difesa son posti su un piano, almeno teoricamente, paritario, mentre è il Giudice a dover, mercè la propria sentenza, sciogliere tale conflitto.
Ed infatti, se il vecchio modello processuale mi piaceva stigmatizzarlo con la formula "ex facto oritur ius", il nuovo secondo va plasticamente raffigurato secondo un altro brocardo latino ovvero: "narra mihi factum, tibi dabo ius".
In altri termini, se nel codice previgente l’accento era da porsi sul factum e sulla sua oggettività, l’attuale codificazione pone l’accento più sulla narrazione che sul fatto come attesta l’articolo 493 c.p.p. che recita testualmente: "Il pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato nell’ordine indicano i fatti che intendono provare e chiedono l’ammissione delle prove...".
Un mutamento di accento e di prospettiva, come si vede, di notevole portata, in quanto indicare i fatti da provare è cosa ben diversa dal fatto già cristallizzato nella sua larga parte e, soprattutto, introduce un margine di soggettività, che il vecchio codice non conosceva e che, anzi, rigettava in radice.
Infatti, non solo la narrazione, rectius la indicazione, è soggettiva e non oggettiva, ma soprattutto rispetto a tale "narrazione" non vi è differenza tra "is qui dicit" (il pubblico ministero) e "is qui negat (il difensore), mentre chi è chiamato a "dare ius" (il Giudice) è posto oggettivamente su un piano ontologicamente diverso rispetto ai primi due.
Un piano più alto è vero ma anche, e forse proprio per tale ragione, più esposto ai colpi della responsabilità e dell’errore.
E per comprendere perfettamente quanto sia pregnante tale sensazione basti pensare alla circostanza che mentre nel previgente modello processuale il Giudice veniva chiamato a dedurre il giudizio da un "fatto" che conosceva perfettamente avendo avuto sin dal primo momento "tra le mani" l’intero fascicolo processuale come collazionato dal Giudice Istruttore al termine della fase appunto istruttoria, con il codice Vassalli invece deve decidere sulla mera rappresentazione operata da altri, P.M. e Difensore, di un fatto che Egli non conosce se non sommariamente e di cui acquisirà conoscenza solo nella misura in cui la "narrazione" operata dagli altri attori del processo sarà, attraverso l’audizione dei testi o la lettura degli atti consentiti, completa ed esaustiva.
Una posizione, quella del Giudice, come si coglie in maniera evidente, assolutamente scomoda, elemento questo che spiega la ragione per la quale i Giudici più che i Pubblici Ministeri abbiano rappresentato il vero baluardo della conservazione attraverso il richiamo a concetti come il principio della conservazione della prova, della necessaria ricerca della verità effettiva e, soprattutto, con la ostentata ritrosia ad accettare le regole del momento più alto ma anche più controverso e delicato del rito accusatorio, ovvero l’esame ed il controesame dei testimoni.
Il Giudice infatti, nel suo conato di conoscere quanto più possibile del fatto su cui dovrà decidere, finisce spesso con l’alterare tale schema processuale impegnato com’è in maniera onnivora ad acquisire qualsivoglia elemento che possa aiutarlo al momento della decisione.
Così facendo però rischia di sostituire alla narrazione operata dalle parti una "propria" narrazione del fatto, circostanza questa pericolosissima, in quanto il Decidente del fatto conosce, o meglio, dovrebbe conoscere meno delle altre parti, con il risultato quindi di stravolgere spesso la propria funzione confondendola con quella delle altre parti ed appiattendola spessissimo su quella del P.M. che, in quanto parte pubblica, sente naturaliter più vicina.
Non a caso, nell’ordinamento anglosassone tale pericolo viene evitato attraverso l’intervento di un quarto attore processuale ovvero la Giuria, la quale non interviene mai nell’agone dibattimentale se non al momento in cui, con giudizio assolutamente privo di motivazione, valuta l’imputato colpevole o non colpevole del fatto reato contestatogli.
Io non propendo per tale soluzione, che creerebbe molti più problemi di quanti non ne risolva, ma non vi è dubbio che è proprio la funzione del Giudice il vero nervo scoperto su cui ruotano molte delle deviazioni e delle storture che si evidenziano nella pratica attuazione del "nuovo" codice di procedura penale, in quanto il Codice Vassalli obbliga, come detto, i Giudici a decidere su una "rappresentazione" del fatto operata da terzi con tutti i limiti connessi a tale impostazione.
In definitiva, pertanto, è la logica del Codice ad imporre la separazione effettiva, e non solo funzionale, tra i Giudici ed i Rappresentanti della Pubblica Accusa essendo tale separazione il passo imprescindibile per ricondurre il ruolo svolto dal Decidente a quello immaginato dagli estensori del sistema processuale vigente, ovvero quella di un Arbitro che disciplina le parti nella composizione della narrazione del fatto da giudicare, narrazione su cui il suo potere di interferenza va ritenuto eccezionale, in quanto, ove così non fosse, svilirebbe il suo essere espressione della sintesi, ma finirebbe con l’essere espressione anch’egli di una tesi, che la circostanza di essere espressa per ultima non renderebbe certo più affidabile delle altre palesatesi nell’agone processuale.
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