Arresti domiciliari: quando scatta l'evasione?
In ciabatte a pochi metri dalla propria abitazione c'è evasione? Il caso tra offensività della condotta e giurisprudenza di legittimità

Ai sensi dell’art. 385 c.p., comma terzo, le disposizioni previste per colui che, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade, si applicano anche "all'imputato che essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento se ne allontani".
La genericità che caratterizza la norma consente di interrogarsi sull’elemento oggettivo della fattispecie di reato:
Cosa deve intendersi per allontanamento? E soprattutto, pochi metri di distanza dal luogo di detenzione domiciliare sono sufficienti ad integrare il reato di evasione?
L’orientamento giurisprudenziale in materia (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 27 marzo 2012, n.11679) sembra incardinarsi su una lettura restrittiva della norma ritenendo che per il perfezionamento del reato di evasione dagli arresti domiciliari, non assumono rilievo la distanza maggiore o minore dalla abitazione eletta a sede esecutiva della misura, dalla quale si accerti essersi allontanato il soggetto cautelato.
Tuttavia, è evidente che tale orientamento non tiene conto di uno dei principi cardini del sistema penale italiano: il principio di offensività.
Infatti, la lettura della norma in questione alla luce di tale principio evidenzia che l’interpretazione posta in essere dalla giurisprudenza di legittimità non è poi così ovvia.
Il principio di offensività, come afferma la Corte costituzionale, opera non solo sul piano della previsione normativa laddove impone al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, ma anche sul piano dell’applicazione giurisprudenziale: il giudice è tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso l’interesse tutelato.
L'interesse tutelato dalla norma incriminatrice della condotta suscettibile di contestazione ai sensi dell’art. 385 c.p. è costituito dall’autorità delle decisioni giudiziarie, ossia il rispetto che il detenuto deve riporre nei confronti della statuizione del giudice che l'ha posto agli arresti domiciliari.
Dunque, sarebbe interessante chiedersi quando tale bene giuridico risulta offeso.
Ebbene se la lesione di tale bene avviene quando l'agente, violando i limiti spaziali, si sottrae completamente alla costante possibilità di controllo da parte di organi a ciò devoluti, tale lesione non si verifica nel caso di un soggetto che si trovi a pochi metri dalla porta della propria abitazione.
In tal caso, infatti, il soggetto non si è affatto sottratto al controllo da parte dei carabinieri, né tantomeno ha posto in essere un allontanamento che ha reso difficoltoso un agevole e pronto controllo da parte dell'autorità della sua reperibilità, dunque, il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice in questione non è stato leso, pertanto, non è stata realizzata la condotta di evasione.
Anche da un punto di vista soggettivo è possibile cogliere elementi discordanti con la giurisprudenza maggioritaria.
Seppur nel reato di evasione viene richiesto un dolo generico consistente nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura senza la prescritta autorizzazione, è evidente che un soggetto in ciabatte non vuole affatto lasciare il proprio luogo di esecuzione.
A sostegno di tali argomentazioni, onde evitare eccessi di severità, si richiama una brillante esplicazione in materia della Suprema Corte: l'assenza di responsabilità penale si ha quando "non vi è alcuna apprezzabile soluzione di continuità del suo stato di restrizione, non apprezzandosi una effettiva e concreta violazione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice".
La genericità che caratterizza la norma consente di interrogarsi sull’elemento oggettivo della fattispecie di reato:
Cosa deve intendersi per allontanamento? E soprattutto, pochi metri di distanza dal luogo di detenzione domiciliare sono sufficienti ad integrare il reato di evasione?
L’orientamento giurisprudenziale in materia (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 27 marzo 2012, n.11679) sembra incardinarsi su una lettura restrittiva della norma ritenendo che per il perfezionamento del reato di evasione dagli arresti domiciliari, non assumono rilievo la distanza maggiore o minore dalla abitazione eletta a sede esecutiva della misura, dalla quale si accerti essersi allontanato il soggetto cautelato.
Tuttavia, è evidente che tale orientamento non tiene conto di uno dei principi cardini del sistema penale italiano: il principio di offensività.
Infatti, la lettura della norma in questione alla luce di tale principio evidenzia che l’interpretazione posta in essere dalla giurisprudenza di legittimità non è poi così ovvia.
Il principio di offensività, come afferma la Corte costituzionale, opera non solo sul piano della previsione normativa laddove impone al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, ma anche sul piano dell’applicazione giurisprudenziale: il giudice è tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso l’interesse tutelato.
L'interesse tutelato dalla norma incriminatrice della condotta suscettibile di contestazione ai sensi dell’art. 385 c.p. è costituito dall’autorità delle decisioni giudiziarie, ossia il rispetto che il detenuto deve riporre nei confronti della statuizione del giudice che l'ha posto agli arresti domiciliari.
Dunque, sarebbe interessante chiedersi quando tale bene giuridico risulta offeso.
Ebbene se la lesione di tale bene avviene quando l'agente, violando i limiti spaziali, si sottrae completamente alla costante possibilità di controllo da parte di organi a ciò devoluti, tale lesione non si verifica nel caso di un soggetto che si trovi a pochi metri dalla porta della propria abitazione.
In tal caso, infatti, il soggetto non si è affatto sottratto al controllo da parte dei carabinieri, né tantomeno ha posto in essere un allontanamento che ha reso difficoltoso un agevole e pronto controllo da parte dell'autorità della sua reperibilità, dunque, il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice in questione non è stato leso, pertanto, non è stata realizzata la condotta di evasione.
Anche da un punto di vista soggettivo è possibile cogliere elementi discordanti con la giurisprudenza maggioritaria.
Seppur nel reato di evasione viene richiesto un dolo generico consistente nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura senza la prescritta autorizzazione, è evidente che un soggetto in ciabatte non vuole affatto lasciare il proprio luogo di esecuzione.
A sostegno di tali argomentazioni, onde evitare eccessi di severità, si richiama una brillante esplicazione in materia della Suprema Corte: l'assenza di responsabilità penale si ha quando "non vi è alcuna apprezzabile soluzione di continuità del suo stato di restrizione, non apprezzandosi una effettiva e concreta violazione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice".
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