Aspettativa retribuita, obbligo di restituzione ma solo al netto


Obbligo di restituire la retribuzione percepita in aspettativa per motivi di studio in caso di dimissioni anticipate, ma al netto delle ritenute fiscali e previdenziali
Aspettativa retribuita, obbligo di restituzione ma solo al netto

 

1. Questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 476 del 1984, così come modificato dall’art. 52 comma 57 (L. 28 dicembre 2001, n. 448). Non sussiste

Si controverte in merito alla legittimità della pretesa azionata dalla P.A. allo scopo di ottenere in restituzione da C. B. – dipendente del Ministero per i Beni e Attività Culturali - la retribuzione erogatagli durante il periodo di aspettativa per motivi di studio (Dottorato di Ricerca).  Nel caso di specie il lavoratore aveva fruito del beneficio previsto dall’art. 52 comma 57 della Legge 28 dicembre 2001, n. 448, a mente del quale:

“In caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio, o di rinuncia a questa, l'interessato in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da parte dell'amministrazione pubblica presso la quale è instaurato il rapporto di lavoro”.

Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca, a distanza di qualche mese, il dipendente risultato vincitore del concorso notarile, aveva dovuto porre fine al rapporto di lavoro subordinato prima di assumere il delicato ufficio. A seguito di ciò, la P.A. aveva con particolare sollecitudine applicato la speciale clausola risolutiva del beneficio prevista dall’ultimo periodo della citata disposizione ove è stabilito che:

“Qualora, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, il rapporto di lavoro con l'amministrazione pubblica cessi per volontà del dipendente nei due anni successivi, è dovuta la ripetizione degli importi corrisposti ai sensi del secondo periodo”.

Nel corso del 1° grado del giudizio intrapreso dal lavoratore per resistere alla pretesa creditoria, la difesa di quest’ultimo aveva contestato la ripetibilità di tali somme per vari motivi e in via preliminare sollevato questione di illegittimità costituzionale avverso la disposizione con cui veniva sancita la decadenza dal beneficio; per violazione degli artt. 3 co. 2 Cost. (principio di uguaglianza sostanziale), art. 9 comma 1° (tutela della ricerca scientifica), nonché  artt. 34 co. 3,4; 35 co. 2; 97 Cost. La difesa del lavoratore riteneva, difatti, non compatibile con il delineato quadro costituzionale tale norma nella parte in cui:

“In caso di dimissioni volontarie dal rapporto d’impiego (nei due anni successivi al dottorato) esenta dall’obbligo di ripetizione dei ratei solo quei lavoratori che abbiano mantenuto un rapporto di lavoro con la P.A. (inteso nell’accezione di lavoro dipendente salariato) e non anche tutti coloro i quali siano comunque risultati vincitori di un pubblico concorso, come quello per l’accesso al notariato”.

La difesa del lavoratore evidenziava, in particolar modo, la natura pubblicistica delle funzioni assolte dal professionista, le peculiari modalità di accesso alla carriera notarile che postula il superamento di un selettivo concorso pubblico; da ciò, essa traeva motivo e ragione per denunciare l’irragionevolezza della condizione risolutiva del beneficio prevista dalla disposizione in esame. Sennonché, Il Tribunale di Napoli aveva ritenuto del tutto superfluo tale scrutinio perché la questione non era stata sollevata in limine litis bensì solo nel corso del giudizio in sede di note autorizzate.

Tale decisione veniva censurata dalla difesa del lavoratore in appello ove erano  riproposte le argomentazioni svolte per sostenere rilevanza, o quanto meno la non manifesta infondatezza della questione sollevata rispetto alla delibazione del caso di specie; veniva proposta, anche, un’ulteriore istanza volta alla disapplicazione della disposizione in parola nella presente fattispecie, per contrasto con la normativa comunitaria (artt. 13,14,15,21 del Tratto di Lisbona) e su tale presupposto invocava la declaratoria di non ripetibilità delle somme azionate a titolo di credito erariale.

In contrario avviso, la corte di Appello aveva deciso di entrare nel merito ed esaminare più approfonditamente la questione di L.C. affermando, preliminarmente come:

“La logica del controllo di costituzionalità in via incidentale sembrerebbe richiedere un’emancipazione del giudice allorquando si tratta di sindacare la conformità alla costituzione di una norma rilevante nel giudizio in quanto, diversamente opinando, anche quando l’eccezione di parte (tardiva) fosse ragionevolmente fondata, si manterrebbe comunque nel sistema una disposizione sospettata di incostituzionalità".

Quanto al merito della questione invece, la corte di Appello si era prodotta in un’articolata elaborazione giuridica basata, in primo luogo sulla individuazione e conseguente bilanciamento di diversi interessi, affermando in un’ottica di composizione dei medesimi che:

Si assiste, in definitiva, a una coesistenza d’interessi, potenzialmente contrapposti, che necessitano di un criterio compositivo: da un lato, infatti, l’amministrazione pubblica (concretamente individuata), presso cui è instaurato il rapporto di lavoro, ha interesse a beneficiare della prestazione lavorativa del proprio dipendente; dall’altro, tuttavia, l’amministrazione pubblica, intesa come Amministrazione in generale, ha interesse a che il dipendente, selezionato come il più meritevole, conduca e porti a termine la ricerca nell’interesse della collettività.

Il balancing dei valori in gioco è stato, di recente risolto attraverso norme compromissorie, in parte di deroga al principio costituzionale della tutela incondizionata della ricerca (art. 9 Cost.), deroga, però, giustificata sotto un profilo economico meritevole di considerazione. E, infatti, il compromesso muove dall’opportunità di far sì che il soggetto – ricercatore resti prestatore di lavoro tra le fila delle Pubbliche Amministrazioni. Ciò si traduce in un regime giuridico che: da un lato, consente al ricercatore di essere “esonerato” dalla prestazione di lavoro (mediante un congedo straordinario), per tutto il periodo della ricerca; dall’altro consente allo stesso di poter continuare a percepire il trattamento economico in godimento presso l’Amministrazione di appartenenza. Il tutto con un compromesso: la percezione del salario vincola il ricercatore a prestare servizio presso l’Amministrazione Pubblica per un determinato periodo all’indomani della chiusura del percorso di ricerca, ergo, il diritto soggettivo di rango costituzionale alla ricerca (ed, infatti, il congedo non è atto discrezionale: se il dipendente lo chiede va concesso) viene, in parte, tutelato con la retribuzione e l’aspettativa (rectius: congedo) ed, in parte, “fatto proprio” dallo Stato mediante il vincolo del periodo di servizio ex lege.

Poste tali premesse, la Corte di Appello con sentenza n°927/2020 decideva per il rigetto della questione preliminare attesa “la razionalità della norma e la sua conformità ai dettati costituzionali, con conseguente rigetto dell’eccezione sollevata dall’appellante”.

2. La richiesta di restituzione dei compensi indebitamente percepiti dal lavoratore a titolo di retribuzione, infatti, non può che avere ad oggetto le somme effettivamente e direttamente entrate nella sfera patrimoniale del dipendente), non potendosi pretendere la ripetizione di somme calcolate al lordo delle ritenute fiscali, le quali non sono mai entrate nella disponibilità materiale e giuridica del lavoratore.   

Nel giudizio di 1° grado il Tribunale aveva riconosciuto la fondatezza della pretesa creditoria condannando il lavoro alla restituzione in favore delle Amministrazioni oggi appellate della somma calcolata al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali. In contrario avviso la corte di Appello statuiva che:

Resta esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di quote fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, derivandone che, nell’operare le deliberate ripetizioni delle indennità non dovute ed erroneamente erogate, l’Amministrazione deve tener conto solo del netto effettivamente riscosso dai dirigenti e non delle somme già in possesso dell’Amministrazione dello Stato, afferenti agli oneri fiscali: in particolare, la Corte di Cassazione (sezione lavoro, 4 settembre 2014, n. 18674) ha precisato come: «nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco, può ripetere l’indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest’ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente» (in senso conforme Cassazione Civile, sezione Lavoro, 2 febbraio 2012, n. 1464; Cassazione Civile, sezione Lavoro, 11 gennaio 2006 n. 239, Cassazione Civile, sezione Lavoro, 26 febbraio 2002 n. 2844).

Tale motivato convincimento apriva il campo a un accoglimento, in via parziale, dell’appello con conseguente rideterminazione e significativa riduzione del credito erariale facendo proprie le conclusioni cui era approdato il C.T.P. di parte appellante nell’ambito della C.T.U. contabile disposta d’ufficio al fine di determinare le somme dovute in restituzione dal lavoratore al netto di oneri fiscali e previdenziali.

 

Articolo del:


di avv. Giuseppe Perillo

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