Atti illeciti del Capo dello Stato, procedibilità e improcedibilità


La pratica impossibilità di procedere per attentato alla Costituzione e per alto tradimento
Atti illeciti del Capo dello Stato, procedibilità e improcedibilità

L’art. 90 della Costituzione stabilisce che “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.


Quali gli atti, compiuti nell’esercizio delle funzioni di presidente, non sono punibili? Anche i reati?


Il problema non può essere sviscerato in queste poche righe, ma può essere esposto per grandi linee, rimandando un esame più approfondito ad articoli successivi.
Nel marzo del 1992 il senatore Pierluigi Onorato conveniva, avanti il Tribunale di Roma, il Capo dello Stato Francesco Cossiga, chiedendo d’esser da lui risarcito con due miliardi di lire.
La domanda del senatore, magistrato e sardo come il presidente Cossiga, si aggiungeva a quella di un altro parlamentare: Sergio Flamigni (chiedeva d’esser risarcito con mezzo miliardo di lire) che, di professione scrittore, aveva pubblicato un libro su “fantasmi del passato” del Capo dello Stato e su sue eventuali responsabilità nell’affare Moro.


Cossiga, in qualità di presidente della repubblica, in occasione di una riunione al Quirinale con i parlamentari della commissione sui servizi per l'informazione e la sicurezza dello Stato, aveva apostrofato il senatore Onorato, eletto nelle liste comuniste e contrario alla prima guerra del golfo, con frasi del tipo “traditore della patria, inquisitore collaborazionista col nemico, vergogna della Sardegna” ed altro. Inoltre il presidente, al Gr2, aveva anche dichiarato che lo stesso era “pagliaccio e pataccaro”.
Per quanto riguarda il secondo, Cossiga conversando con dei giornalisti a bordo di un aereo, aveva liquidato le affermazioni del parlamentare come “un sacco di sciocchezze…non per cattiva volontà, ma per poca intelligenza”.


Espressioni ed esternazioni di questo genere da parte di Francesco Cossiga erano in quel periodo frequentissime e si inquadravano nel suo intendimento di presidente ad innovare le norme di comportamento e di correttezza costituzionale nella prassi istituzionale, fin allora seguite e da lui ritenute ormai vane e addirittura dannose.
Nell’ambito di tale comportamento, però, il presidente era arrivato anche a contrastare il parlamento e la magistratura, minacciando addirittura di sospenderne le funzioni e di arrestare i membri del Consiglio della Magistratura.
Il 6 dicembre del 1991 era stata presentata al parlamento la richiesta di messa in stato d’accusa del presidente per attentato alla costituzione.


Le accuse erano gravi, ma Cossiga, il 28 aprile 1992, si dimise dalla carica di Capo dello Stato, il comitato parlamentare nel ‘93 le ritenne infondate ed il Tribunale dei Ministri nel ‘94 archiviò.

Le due cause per risarcimento dei danni, invece, procedettero per molti anni, non riunite, ma parallele.
La difesa dell’ormai ex presidente eccepì l’improcedibilità ex art. 90 cost., sostenendo che le affermazioni per le quali si era in causa, erano state fatte nell’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato e a difesa della carica. Il Tribunale accolse le domande degli attori (Trib. Roma, n. 9922/1993 e n. 7338/1994) escludendo che quanto era stato detto dal convenuto rientrasse tra le funzioni di presidente della repubblica.


La Corte d’Appello, tuttavia, riformò le due sentenze, accogliendo la tesi della difesa di Cossiga (sentenze 21 aprile 1997 e 16 marzo 1998).


La Cassazione invece cassò le sentenze con rinvio alla Corte d’Appello (Cass., n. 8733/2000 e 8734/2000) perché decidesse nel merito se le esternazioni fossero state fatte in difesa della carica presidenziale o solo della persona.


Ma a questo punto Cossiga investì la Corte Costituzionale sussistendo, a suo avviso, conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato e chiedendo di annullare, per eccesso di potere, la decisione della Cassazione.


La Corte dichiarò ammissibile il ricorso (Corte Cost. Ord., n. 455/2002) decidendo che la persona, anche cessata dalla carica presidenziale, poteva sollevare il problema. Respinse, però, le richieste del ricorrente di annullamento delle sentenze, confermando che spettava alla magistratura ordinaria accertare la natura delle esternazioni, se fossero funzionali o no alla carica presidenziale, o ad essa accessorie ed in caso di accertamento positivo ritenerle immuni ex art. 90 Costituzione, essendo inammissibile, per il resto, il ricorso (Corte Cost. n. 154/2004).


La Corte d’Appello, investita nuovamente delle cause, decise in favore dei due senatori offesi, ma Cossiga impugnò la decisione sia di fronte alla Cassazione che nuovamente di fronte alla Corte Costituzionale, sostenendo in entrambi i ricorsi che la Corte d’Appello non aveva seguito i principi di diritto della Corte di Cassazione, ma aveva deciso “in modo incoerente e contrastante”.


La Cassazione respinse il ricorso, condannando definitivamente Cossiga al risarcimento dei danni (Cass., n. 4325/2010) e, per parte sua, la Corte Costituzionale, quando ormai l’ex presidente era morto da tempo, dichiarò inammissibile il ricorso, dichiarandosi incompetente in materia di error in iudicando (Corte Cost., n. 1/2013).


Resta un ulteriore interrogativo. Se Cossiga fosse stato effettivamente ritenuto passibile dal Parlamento di esser processato per attentato alla Costituzione, avrebbe potuto esser effettivamente processato?
Sorgono, infatti, due domande: una, relativa alla natura dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione e, l’altra, sulla sanzione. Quali leggi individuano i due reati presidenziali e l’irrogazione della pena?


Per quanto riguarda la natura dei reati occorre tener conto del dettato ex art. 25 della Costituzione: “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. L’art. 15 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 dispone: “Per i reati di attentato alla Costituzione e di alto tradimento commessi dal Presidente della Repubblica la Corte costituzionale, nel pronunciare sentenza di condanna, determina le sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto dalle leggi vigenti al momento del fatto, nonché le sanzioni costituzionali, amministrative e civili adeguate al fatto”.


Originariamente i padri costituenti ritenevano, almeno tendenzialmente, che i reati presidenziali si sarebbero dovuti ricondurre a quanto previsto dalla legge penale ordinaria (v. Costantino Mortati, Ist. Di Diritto Pubblico, vol. 1, sez. 1, cap. 3).
Successivamente, però, prevalse un’opinione contraria per cui non sarebbe possibile ricondurre le funzioni presidenziali alle fattispecie di reati ascrivibili al Capo dello Stato come contemplate dal diritto penale comune.
Il risultato è una vaghezza tale, nel configurare sia i gravissimi delitti imputabili al Presidente come la loro sanzione indicata genericamente come massima, da far ritenere a non pochi l’impossibilità pratica di poter, allo stato attuale, procedere all’impeachment di un presidente fellone per vie legali.

 

Articolo del:


di Pietro Bognetti

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