Autosufficienza economica o tenore di vita?
Qualche riflessione prima dell'attesa pronuncia. Come l'evoluzione socio-culturale e le modifiche legislative hanno influenzato la giurisprudenza
Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su un tema di grande rilevanza, un tema che da qualche tempo si trova "sotto i riflettori" ed è oggetto di forte dibattito tra esperti e non: la quantificazione dell’assegno di divorzio, o meglio, il "se" e il "quanto" di quell’assegno.
Alla tradizionale impostazione, ferma nel voler far mantenere al coniuge "debole" lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, si è affiancata una nuova visione secondo cui il diritto all’assegno sorge se, e solo se, uno dei coniugi si trovi nell’impossibilità di raggiungere l’autosufficienza economica.
Questo è in linea con gli ultimi mutamenti che si sono avvertiti nel diritto di famiglia, non solo dal punto di vista legislativo, ma anche sociale.
Si pensi al minor tempo che può oggi intercorrere tra separazione e divorzio, da 6 mesi ad un anno, a fronte dei 3 anni pre-riforma; o all’introduzione degli strumenti della negoziazione assistita, finanche della possibilità di separarsi e divorziare in Comune.
Questa piccola rivoluzione è stata frutto certamente di una modificazione dei costumi: matrimoni più brevi, necessità di strumenti più snelli, maggior spazio richiesto dall’autonomia privata, appiattimento delle disparità economiche tra coniugi, accesso di entrambi i coniugi al mondo del lavoro, con la conseguente "scomparsa" o quanto meno ridimensionamento del modello familiare - di antica derivazione - fondato sulla centrale figura del "pater familias".
Così, si dice, quel che conta è più l’individuo che la famiglia, dunque se l’individuo può mantenersi, irrilevante sarebbe il tenore di vita precedente.
Pare essere un’affermazione che, se portata al suo estremo, può divenire quasi pericolosa; c’è il rischio, infatti, come è stato rilevato, che il lavoro domestico non abbia più considerazione, che si chieda a persone fuori dal mondo del lavoro per scelta "familiare" di rientrarvi o di accedervi per la prima volta, e che la solidarietà familiare, infine, non sia più un valore.
D’altra parte, non sembra essere questa l’unica soluzione possibile, né quella che la giurisprudenza sceglierà di adottare, piuttosto la scelta potrà incoraggiare la responsabilizzazione dei singoli, l’impossibilità di, si passi il termine, "restare attaccati al cordone ombelicale" di un matrimonio durato poco, soprattutto in un’epoca caratterizzata da famiglie ricomposte.
Allora, chi è in grado di mantenersi, dovrà mantenersi, questo parrebbe equo, magari "strizzando l’occhio" al tenore di vita precedente, da cui forse sarà difficile prescindere del tutto, se non in casi estremi di "matrimoni lampo".
E forse a questo ha fatto riferimento il Sostituto Procuratore Generale di fronte alle Sezioni Unite della Suprema Corte (chiamate a confermare o meno la sentenza Grilli) sostenendo che il criterio del tenore di vita debba ancora essere utilizzato come riferimento nella decisione sull’assegno divorzile: tra circa un mese il verdetto, e chissà che tra i due litiganti vinca l’equilibrio.
Alla tradizionale impostazione, ferma nel voler far mantenere al coniuge "debole" lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, si è affiancata una nuova visione secondo cui il diritto all’assegno sorge se, e solo se, uno dei coniugi si trovi nell’impossibilità di raggiungere l’autosufficienza economica.
Questo è in linea con gli ultimi mutamenti che si sono avvertiti nel diritto di famiglia, non solo dal punto di vista legislativo, ma anche sociale.
Si pensi al minor tempo che può oggi intercorrere tra separazione e divorzio, da 6 mesi ad un anno, a fronte dei 3 anni pre-riforma; o all’introduzione degli strumenti della negoziazione assistita, finanche della possibilità di separarsi e divorziare in Comune.
Questa piccola rivoluzione è stata frutto certamente di una modificazione dei costumi: matrimoni più brevi, necessità di strumenti più snelli, maggior spazio richiesto dall’autonomia privata, appiattimento delle disparità economiche tra coniugi, accesso di entrambi i coniugi al mondo del lavoro, con la conseguente "scomparsa" o quanto meno ridimensionamento del modello familiare - di antica derivazione - fondato sulla centrale figura del "pater familias".
Così, si dice, quel che conta è più l’individuo che la famiglia, dunque se l’individuo può mantenersi, irrilevante sarebbe il tenore di vita precedente.
Pare essere un’affermazione che, se portata al suo estremo, può divenire quasi pericolosa; c’è il rischio, infatti, come è stato rilevato, che il lavoro domestico non abbia più considerazione, che si chieda a persone fuori dal mondo del lavoro per scelta "familiare" di rientrarvi o di accedervi per la prima volta, e che la solidarietà familiare, infine, non sia più un valore.
D’altra parte, non sembra essere questa l’unica soluzione possibile, né quella che la giurisprudenza sceglierà di adottare, piuttosto la scelta potrà incoraggiare la responsabilizzazione dei singoli, l’impossibilità di, si passi il termine, "restare attaccati al cordone ombelicale" di un matrimonio durato poco, soprattutto in un’epoca caratterizzata da famiglie ricomposte.
Allora, chi è in grado di mantenersi, dovrà mantenersi, questo parrebbe equo, magari "strizzando l’occhio" al tenore di vita precedente, da cui forse sarà difficile prescindere del tutto, se non in casi estremi di "matrimoni lampo".
E forse a questo ha fatto riferimento il Sostituto Procuratore Generale di fronte alle Sezioni Unite della Suprema Corte (chiamate a confermare o meno la sentenza Grilli) sostenendo che il criterio del tenore di vita debba ancora essere utilizzato come riferimento nella decisione sull’assegno divorzile: tra circa un mese il verdetto, e chissà che tra i due litiganti vinca l’equilibrio.
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