Danno da attività medica: in mancanza della cartella clinica si ricorre alle presunzioni
La cartella clinica, in situazione di danno derivante da attività medica, assume un ruolo determinante in quanto essa è il diario quotidiano delle terapie somministrate al paziente, comprese le trasfusioni, infatti, la scheda trasfusionale, in cui vengono annotatati i dati della trasfusione e del donatore (identificato con un codice per renderlo anonimo) di sangue, è parte della cartella clinica.
Può verificarsi che la cartella clinica sia tenuta in modo difettoso, ovvero incompleto o impreciso, o addirittura può accadere che essa vada smarrita.
Queste situazioni non possono tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente, al quale è anzi consentito il ricorso a “presunzioni”, “al più probabile che non” che costituiscono espressione del criterio di vicinanza della prova.
È da ricordare che il Ministero della Sanità, con circolare 61 del 19 dicembre 1986 n. 900.2/ AG. 464/260, ha stabilito che il periodo di conservazione della documentazione sanitaria (cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti) presso le istituzioni sanitarie pubbliche e private di ricovero e cura vanno conservate illimitatamente poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentaria per le ricerche di carattere storico sanitario.
Nel caso in cui non si possa recuperare la documentazione clinica si può propendere per raccogliere, avanti ad un pubblico ufficiale, delle dichiarazioni testimoniali (è più corretto parlare di dichiarazioni di persone informate sui fatti) dell’evento che ha portato al danno (esempio trasfusione) è ciò ex art. 47 dpr445/2002.
Ciò potrà essere un presupposto probatorio nella fase giudiziale.
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