Caso Thyssen


Breve excursus sulle sentenze che hanno stabilito le responsabilità penali nell'incidente occorso all'acciaieria di Torino
Caso Thyssen
Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, nello stabilimento dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino si sviluppò un focolaio di incendio che, a causa del materiale combustibile presente e la rottura di tubi contenenti olio idraulico liquido, formò una nuvola incandescente di olio nebulizzato (flash fire), che investì sette operai, cagionandone la morte, provocò lesioni personali ad altri ed un disastroso incendio. Dal tragico avvenimento, oltre all’enorme commozione da parte dell’opinione pubblica, è scaturita una vicenda giudiziaria estremamente rilevante per i numerosi profili giuridici interessati.
La prima sentenza della Corte d’Assise di Torino, accogliendo la tesi dell’accusa, condannò l’amministratore delegato per omicidio e incendio volontari con dolo eventuale, ed altri cinque dirigenti per omicidio colposo plurimo e incendio colposo aggravati dalla previsione dell’evento; inoltre, tutti i suddetti furono condannati per omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e la società per l’illecito amministrativo derivante dal reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
La responsabilità della dirigenza scaturiva dalla propria decisione di posticipare gli investimenti antincendio a seguito del trasferimento della sede dello stabilimento da Torino a Terni, nonostante le crescenti condizioni di abbandono, mancata adozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione, e carenza di sicurezza in cui lo stabilimento stesso si trovava. La Corte torinese motivava la propria decisione affermando che tutti gli imputati si erano rappresentati "la concreta possibilità del verificarsi di un incendio e di un infortunio anche mortale", e che parimenti "sperassero, nonostante la prevedibilità, la previsione e la rappresentazione dell’evento, che non capitasse nulla". Solo l’A.D. in quanto "persona preparata, autorevole, determinata, competente e scrupolosa avrebbe deliberato di non investire in "fire prevention", subordinando il bene della incolumità dei lavoratori a quello degli obiettivi economici dell’azienda", accettando, perciò, seppur in forma eventuale, la possibilità che l’infortunio si verificasse e potesse avere esiti mortali. La tesi avallata in primo grado è quella dell’accettazione del rischio, che pone l’accento sul momento volitivo come esito di un bilanciamento comparativo tra contrapposti interessi, quello perseguito dallo stesso agente e quello presidiato dalla norma incriminatrice. Le condizioni precarie delle linee di produzione, i numerosi piccoli incendi verificatisi nei mesi precedenti al disastro, la mancata adozione di misure organizzative e preventive, lo stato di abbandono ed insicurezza dello stabilimento, sono tutti elementi che hanno indotto la Corte d’Assise a ritenere integrata in capo agli imputati una volizione determinata dal "costi quel che costi" per raggiungere l’obiettivo primario, ossia il risparmio e l’accantonamento di fondi.
Questa sentenza ha avuto un’immensa eco mediatica dal momento che, per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano, l’amministratore delegato, qualificato datore di lavoro, è stato condannato per omicidio doloso, seppur eventuale, e non colposo.
Tuttavia, la Corte di Assise d’Appello di Torino, nel febbraio 2013, riqualificava le condotte dolose in colpose, ritenendo che gli imputati avessero agito nella convinzione che gli eventi sarebbero stati evitati ed aprendo così il dibattito sulla linea di confine tra le due fattispecie di elemento soggettivo di dolo eventuale e colpa cosciente.
Proprio per l’importanza della questione i ricorsi in Cassazione sono stati assegnati alle Sezioni Unite che, nella sentenza n. 38343 del 2014, hanno confermato la responsabilità degli imputati per omicidio colposo (escludendo, quindi, l’ipotesi di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale), annullando una parte della sentenza di appello e rinviando ad altra sezione per la rideterminazione delle pene e fissando alcune linee per la qualificazione del dolo eventuale.
Per individuare i tratti distintivi tra dolo eventuale e colpa cosciente, la Suprema Corte ha analizzato i fondamenti base del dolo (la condotta coinvolge sia il piano rappresentativo che quello volitivo) e della colpa (aver mal governato il rischio, non aver adottato quelle misure idonee ad evitare le conseguenze pregiudizievoli della condotta).
La linea di confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente viene, pertanto, individuata nella esistenza o meno del momento volitivo, inteso dalle Sezioni Unite quale processo decisorio in cui ci si determini ad agire o meno, dopo un’analisi dei costi benefici, in vista del conseguimento di un determinato obiettivo ed accettando l’eventuale lesione di beni giuridici altrui.
Pertanto:
- il dolo eventuale viene rappresentato come una "presa di posizione volontaristica", un "atteggiamento psichico che indichi un’adesione all’evento", una volontà che esprima una scelta razionale del soggetto agente, una volontaria determinazione ad una condotta antigiuridica;
- la colpa cosciente è, invece, contraddistinta da un atteggiamento malaccorto, noncurante, insensato, che si determina in una situazione di rischio e nel quale sussiste la consapevolezza di tale contingenza e, pur tuttavia, si agisce senza soppesarne il pericolo.
La Corte di Cassazione ha, infine, evidenziato l’enorme difficoltà dell’interprete che deve soppesare gli atteggiamenti interiori dell’agente alla luce di una serie di fattori eterogenei e multiformi. E’ compito del giudice, infatti, ricostruire, attraverso una serie di indizi o indicatori elencati nella sentenza citata, il processo psichico seguito dal soggetto agente, e determinare se l’elemento volitivo sopra descritto sussista o meno.

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di Laura Lazzarini

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