CEDU: sottrazione internazionale di minore


Condannata l’Ungheria per non aver adottato misure adeguate a garantire il ricongiungimento della minore con suo padre, cittadino italiano
CEDU: sottrazione internazionale di minore
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo è tornata a pronunciarsi su un delicato caso di sottrazione internazionale di minore, ed ha condannato l’Ungheria per la violazione dell’art. 8 CEDU.
Il ricorrente, un cittadino italiano assistito dagli avvocati Luigi Serino e Giovanni Romano, ha presentato ricorso chiedendo la condanna dell’Ungheria, il paese originario della compagna, ove questa si è rifugiata portando con sé la loro bambina e poi facendo perdere le proprie traccie.
LA VICENDA
Il ricorrente, cittadino italiano, nel 2008 instaurò una convivenza con la propria compagna, cittadina ungherese, in un comune italiano; dalla loro unione, a settembre 2011, nacque una bambina.
Dopo alcuni mesi dalla nascita, la compagna si recò in Ungheria portando con sé la minore; il compagno avrebbe dovuto poi raggiungerle all’estero, così da poter riprenderle e far ritorno in Italia.
Tuttavia, proprio mentre si trovava in viaggio, fu informato dalla compagna che non intendeva tornare in Italia. Successivamente, quando il ricorrente si recò nuovamente in Ungheria, la donna gli negò di vedere la figlia, a meno che non avesse accettato di lasciare che la minore vivesse in Ungheria con la madre e di versare un mantenimento mensile pari ad Euro 500,00, operando di fatto una sottrazione internazionale di minore. Il ricorrente respinse la proposta e tornò in Italia, a gennaio 2012.
Questo l’incipit della vicenda: successivamente il ricorrente ha intrapreso un dispendioso e doloroso doppio percorso giudiziario al fine di potersi ricongiungere con la figlia. Ha infatti intentato diversi procedimenti a carico della compagna sia dinanzi alle competenti sedi in territorio italiano (Tribunale dei minorenni e Tribunale penale), sia in Ungheria (arrivando qui sino all’ultimo grado di giudizio previsto), sostenendo esosi costi nel tentativo di potersi ricongiungere con la figlia.
Tuttavia, nonostante un mandato di arresto internazionale a carico della madre della bambina e due diversi ordini di rimpatrio emessi sia dalle competenti autorità italiane che ungheresi, la macchina giudiziaria del paese ove si trovava la minore non ha fatto sì che tali provvedimenti fossero eseguiti.
Le competenti autorità ungheresi non sono state in grado di eseguire il provvedimento di rimpatrio della minore e l’arresto della madre, a causa della presunta irreperibilità della stessa.
In altre parole, dopo aver più volte cercato la donna e la bambina presso l’indirizzo di residenza registrato all’anagrafe, le autorità competenti non hanno adottato nessuna altra misura idonea ad individuare la madre con la figlia.
Le autorità ungheresi hanno inoltre respinto, con motivi meramente formali, le tre rogatorie di assistenza giudiziaria con cui il P.M. italiano chiedeva che la polizia italiana fosse autorizzata a collaborare con le forze di polizia locali per eseguire il mandato di arresto emesso nei confronti della madre.
Solo nel 2016, dopo quasi 5 anni dalla sottrazione posta in essere dalla signora, fu sentita, nel corso del procedimento penale a suo carico dinanzi al giudice ungherese, la pediatra della bambina, la quale riferì di aver visitato periodicamente la bambina e di aver rilasciato un certificato necessario per l’iscrizione della minore all’asilo.
A febbraio 2018, data delle ultime notizie ricevute dalla Corte di Strasburgo, il ricorrente non era ancora riuscito a rivedere sua figlia.
I PRINCIPI AFFERMATI DALLA CORTE DI STRASBURGO
Con la sentenza emessa all’esito del ricorso n. 46524/14, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha valutato se "alla luce degli obblighi internazionali derivanti in particolare dal regolamento UE sul riconoscimento delle decisioni e dalla Convenzione dell’Aia, le autorità nazionali abbiano compiuto sforzi adeguati ed efficaci per garantire il rispetto del diritto del ricongiungimento del ricorrente con sua figlia", ribadendo che "in casi di questo tipo, l’adeguatezza di una misura deve essere giudicata dalla rapidità della sua attuazione, poiché il passare del tempo può avere conseguenze irrimediabili per le relazioni tra il minore in questione ed il genitore che non vive con lui o lei" principio già affermato nella sentenza Ignaccolo-Zenide c. Romanina.
E proprio in tale ottica, la Corte ha ritenuto che "al fine di consentire al ricorrente di mantenere legami familiari con la figlia, le autorità nazionali erano in primo luogo obbligate a verificare dove si trovava la sue ex compagna", cosa che non hanno concretamente fatto, posto che dopo aver appurato che la stessa risultava irreperibile presso l’indirizzo di residenza risultante all’anagrafe, le autorità non hanno posto in essere alcun altro tentativo.
Ed ancora, la Corte sottolinea anche che la circostanza che la pediatra della bambina ha riferito di aver rilasciato un certificato necessario per l’iscrizione della bambina a scuola, dimostra che la minore era probabilmente registrata nel sistema scolastico e poteva essere facilmente localizzata dalle autorità nazionali, se solo avessero cercato di dare esecuzione ai provvedimenti giudiziari con diligenza.
In buona sostanza, la mancata localizzazione della madre e quindi anche della bambina da parte delle autorità nazionali, ha impedito al ricorrente ed a sua figlia non solo di ricongiungersi, ma anche di vedersi solo occasionalmente, per oltre sei anni, cagionando un danno irreparabile al rapporto padre-figlia.
La Corte ha quindi accertato la violazione dell’art. 8 da parte delle autorità ungheresi, ritenendo che queste ultime "non hanno adottato tempestivamente tutte le misure che ci si potrebbe ragionevolmente aspettare da loro per consentire al ricorrente ed a sua figlia di mantenere e sviluppare la propria vita familiare. Ciò ha provocato la rottura dei legami emotivi tra il padre e la figlia ed ha quindi violato il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita familiare, cosi come garantito dall’articolo 8", riconoscendo al ricorrente delle somme a titolo di danno patrimoniale e non patrimoniale, oltre che per le spese sostenute per i diversi giudizi dinanzi ai giudici italiani e ungheresi, nonché dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Articolo del:


di Avv. Luigi Serino

L'autore dell'articolo non è nella tua città?

Cerca un professionista con le stesse caratteristiche a te più vicino.

Cerca nella tua città o in una città di tuo interesse