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Cessioni di beni ai fini del plafond IVA


I criteri di valutazione negoziale per qualificare un’operazione come cessione di beni
Cessioni di beni ai fini del plafond IVA

La CGT2° di Basilicata, con la sentenza n. 410/02/2024, si pronuncia sul tema dei criteri ermeneutici per la qualificazione di un’operazione come cessione di beni ed, in quanto tale, rilevante ai fini del calcolo del plafond IVA.

Com’è noto, l’art. 1, comma 1, lett. a) del D.L. n. 746/1983, convertito con Legge n. 17/1984, riconosce lo status di “esportatore abituale” ai soggetti che nell’anno solare precedente (plafond fisso) o nei dodici mesi precedenti (plafond mobile) hanno effettuato un ammontare di “cessioni all’esportazioni”, o di altre operazioni con l’estero “rilevanti”, superiore al 10% del volume d’affari. L’art. 8, c. 1, lett. c), del D.P.R. n. 633/1972 consente agli esportatori abituali, dietro rilascio di “lettera d’intento”, di effettuare acquisti di beni e servizi senza addebito dell’imposta (IVA). 

La ratio sottesa a tale previsione è quella di evitare che coloro i quali pongano in essere una quantità rilevante di operazioni “non imponibili” IVA, quali sono per l’appunto le “cessioni alle esportazioni” ed operazioni assimilate, possano subire pregiudizi finanziari derivanti dalla fisiologica situazione di credito IVA che si creerebbe laddove a fronte di “operazioni non imponibili” dal lato attivo sostenessero rilevanti operazioni con diritto alla detrazione. 

La lettera d’intento, disciplinata dall’art. 1, c. 1, lett. c) del D.L. n. 746/1983, rappresenta lo strumento mediante il quale l’esportatore abituale chiede al proprio fornitore di non applicare l’IVA in fattura certificando, sotto la sua responsabilità, la sussistenza dei presupposti di legge. Soddisfatta la condizione soggettiva - lo status di esportatore abituale - occorre determinare i limiti entro cui è possibile effettuare acquisti senza applicazione dell’imposta, ossia quantificare il cosiddetto “plafond” che può essere fisso o mobile. Il plafond fisso è costituito dalle operazioni di “cessione all’esportazione” e assimilate effettuate nell’anno solare precedente; quello mobile è formato da quelle poste in essere nei 12 mesi precedenti. 

In generale le operazioni che creano plafond sono le seguenti: esportazioni dirette e triangolari ex art. 8 lett. a) del D.P.R. 633/1972; esportazioni a cura del cessionario non residente ex art. 8 lett. b) del D.P. R. 633/1972; cessioni assimilate alle esportazioni ex art. 8-bis del D.P.R 633/1972; servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali ex art. 9, c.1, del D.P.R. 633/1972; cessioni dirette e triangolari intracomunitarie ex art. 58 del D.L. 331/1993; cessioni con lo Stato della Città del Vaticano, Repubblica di San Marino, alle sedi diplomatiche e consolari ex artt. 71 e 72 del D.P.R. 633/1972. 

In caso di utilizzo del plafond oltre il limite consentito (splafonamento), ai sensi dell’art. 7, c. 4 del D.Lgs. 471/1997, si applica una sanzione amministrativa dal 100% al 200% dell’imposta non assolta, fermo restando il recupero dell’imposta non assolta. 

Nel caso esaminato dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado di Basilicata, l’Amministrazione Finanziaria ha contestato la qualificazione delle operazioni di cessione all’esportazione, assumendo che le stesse dovessero essere diversamente qualificate come “prestazioni di servizi generiche” ed in quanto tali, ricomprese nel dettato di cui all’art. 7-ter del D.p.r. 633/1972, non dovessero essere ricomprese nel plafond per l’esportazione abituale. 

Conseguentemente, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado di Basilicata si è interessata alla valutazione negoziale delle operazioni ai fini di qualificarle come “cessioni di beni” ovvero come “prestazioni di servizi” ed a tal fine ha enunciato i criteri ermeneutici che sorreggono tale valutazione.

Ciò premesso, la Corte di giustizia tributaria Lucana osserva che, a norma dell'art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un'espressione "prima facie" chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l'interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e quindi di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime. 

In effetti, nell'interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell'elemento letterale non deve essere inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell'art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici, anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti; pertanto assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all'art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti (Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 13595 del 02/07/2020). 

Più specificamente, il procedimento di qualificazione del contratto consiste in primo luogo nella ricerca ed individuazione della comune volontà dei contraenti; all'interno di questa operazione il "nomen juris" attribuito dalle parti al contratto non assume rilevanza decisiva e non vincola il giudice, specie nel caso in cui si accerti che la qualificazione operata dalle parti si pone in contrasto con il contenuto di una o più clausole contrattuali (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5584 del 09/04/2003). 

Sulla scorta di tali criteri ermeneutici di analisi del negozio, i giudici della Corte di giustizia tributaria Lucana assumono che, al fine di valutare un rapporto negoziale come cessioni di beni si debba guardare al:

  • valore economico dei beni;
  • volontà delle parti.

La centralità del criterio del valore economico dei beni si rinviene dalle conclusioni  di cui alla Risoluzione n. 272/E del 28 settembre 2007 Agenzia delle Entrate - Dir. normativa e contenzioso: “In tale contesto la circolare n.  145/E,  emanata  dal  Ministero  delle finanze  il  10  giugno  1998,  ha  precisato  che,  in  presenza   di   una movimentazione   di   beni    di    scarso   valore    economico    inviati dall'acquirente/committente perché il cedente/prestatore li  utilizzi  nella fase  di  adattamento,  assiemaggio,  assemblaggio  o   montaggio   per   la realizzazione del prodotto finito  fornito  all'acquirente/committente,  "la classificazione  giuridica  dell'operazione  non  può   essere   modificata, risultando  evidente,  con  riferimento  all'oggetto   della  stessa,   una prevalenza della materia ceduta sull'opera prestata dal cedente".

In sostanza, il valore dei beni, anche nella considerazione della citata circolare n. 145/E, non è irrilevante nella qualificazione dell'operazione.

Più precisamente, al fine di distinguere in concreto se una  determinata operazione rientri nel concetto di cessione ovvero  di  prestazione  occorre fare riferimento a diversi criteri, tra cui assume particolare rilevanza  la volontà delle parti. 

Tale concetto è richiamato nella Risoluzione n. 141/E del  15  settembre 2000, ove è stato chiarito che "la qualificazione di un contratto al fine di stabilire se si è  in  presenza  di  un  negozio  ad  effetti  reali  o,  al contrario,  ad  effetti  obbligatori  che regolano un facere, non può prescindere, come rilevato dalla Corte di Cassazione, in materia di Iva, con la recente sentenza n. 5935 del 15 giugno 1999,  da  un'interpretazione  del contratto stesso secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 del codice civile". I canoni ermeneutici di cui al codice civile, richiamati dalla Corte  di Cassazione, sono rappresentati appunto dalla comune intenzione delle  parti, rilevata dal comportamento  delle  stesse   anche   successivamente alla conclusione  del  contratto,  dalla  connessione  fra  le  diverse  clausole contrattuali  lette  secondo  il  senso  che,  a  ciascuna, attribuisce  il complesso dell'atto e dall'interpretazione del contratto secondo buona fede”.

Pertanto, la valutazione dell’incidenza sul costo del prodotto finito del valore dei beni forniti dal produttore, che risultano enormemente più incidenti della manodopera, è un elemento determinante per la qualificazione dell’operazione in termini di cessione di beni.

Tuttavia, il menzionato criterio del valore dei beni è residuale rispetto al criterio principale fondato sull’interpretazione del negozio.

Sull’analisi dell’intenzione delle parti incidono, inoltre, i criteri di emanazione Unionale.

Occorre ricordare che l’art. 2 del D.P.R. n. 633/ 1972 delinea il concetto di «cessione di beni» ai fini dell’imposta mediante una definizione di carattere generale (primo comma), completata dall’elencazione di fattispecie assimilate (secondo comma, c.d. deroga attrattiva) ed escluse (terzo comma, c.d. deroga distrattiva).

Ai fini dell’assoggettamento all’imposta, la disposizione fa riferimento a «beni di ogni genere». La nozione di bene deve essere desunta dagli artt. 810 ss. c.c., per cui costituiscono materia imponibile tutte le cose che sono suscettibili di una valutazione economica ed hanno una propria autonomia giuridica.

Va notato che la disposizione nazionale non indica alcuna specificazione circa la natura dei beni (materiali o immateriali), a differenza della normativa comunitaria, dove la nozione di «cessione di beni» è formulata con esclusivo riferimento ai trasferimenti di beni materiali (art. 5, (1), VI Direttiva n. 77/388).

L'art. 5 della VI direttiva IVA definisce la cessione di un bene come "il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario".

Ed è proprio per questa ragione che la Corte di giustizia, già nella sentenza relativa al caso Shipping and Forwarding EnterpriseSAFE (Sentenza della Corte di giustizia CE, 8 febbraio 1990, causa n. C-320/88, Staatssecretaris Van Financien contro Shipping and Forwarding Enterprise Safe BV (Safe Rekencentrum BV)), aveva statuito che la nozione di "cessione di un bene" non comporta necessariamente il trasferimento della proprietà nel senso giuridico del termine (nell'accezione prevista nei differenti ordinamenti giuridici degli Stati membri), ma che essa ricomprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l'altra parte a disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario

Risulta da tale sentenza che la nozione di "cessione di un bene" ha un contenuto più economico che giuridico. 

Essa si ricollega più alla possibilità per il destinatario della cessione di servirsi del bene, che non alla trasmissione della proprietà effettiva ai sensi del diritto civile degli Stati membri. Infatti, come ha affermato la Corte, solo una definizione economica di tale nozione è compatibile con la finalità della VI direttiva IVA in quanto "questa concezione è conforme alla finalità della direttiva, che mira, fra l'altro, a basare il sistema comune dell'IVA su una definizione uniforme delle operazioni imponibili. Orbene, tale finalità potrebbe esser compromessa qualora la constatazione di una cessione di beni, che è una delle tre operazioni imponibili, fosse soggetta alla realizzazione di condizioni che variano da uno Stato membro all'altro, come avviene per quelle relative al trasferimento di proprietà in diritto civile".

Un simile approccio fu seguito dalla Corte di giustizia anche nella sentenza Intiem (Sentenza della Corte di giustizia CE, 8 marzo 1988, causa n. C-165/85, Leesportefeuille Intiem CV contro Staatsecretaris van Financien), dove la Corte, nell'individuare il soggetto abilitato ad esercitare quel potere di disposizione di natura economica al quale la Corte ricollega la qualifica di cessionario di un bene, fece leva sul dettato dell'art. 11, n.1, lett. a), della VI direttiva.

La Corte, in tale occasione, ritenne che questo potere di disposizione spetta concretamente al soggetto che utilizza il medesimo bene nell'esercizio della propria attività di impresa.

Il concetto di cessione di beni introdotto dall'art. 5 della VI direttiva è un concetto volutamente lato, che risulta essere ben più ampio del concetto di "proprietà giuridica" come definito in base agli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri e che coincide con un potere prettamente economico di disposizione del bene per fini inerenti alla propria attività di impresa.

Le sentenze passate in rassegna contribuiscono a fornire dei criteri guida all'interprete nell'individuazione delle modalità concrete e dei soggetti "beneficiari" di una cessione di beni ai sensi dell'art. 5 della VI direttiva.

In buona sostanza, si può legittimamente concludere che un bene potrà considerarsi validamente ceduto ai sensi dell'art. 5 della direttiva, ove:

a) esista un accordo in base al quale un soggetto cedente attribuisca al cessionario la disponibilità del bene, anche mediante la consegna materiale;

b) detto bene venga utilizzato dal cessionario nell'ambito dell'attività imprenditoriale del cessionario medesimo;

c) il cessionario ne acquisisca un potere di disposizione che gliene consenta un utilizzo pieno nell'ambito della propria attività imprenditoriale.

Pertanto, può ritenersi che costituisca «cessione di un bene» il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario, anche se non viene trasferita la «proprietà giuridica» del bene (Corte di giustizia, 8 febbraio 1990, C-320/88, cit.; Id., 4 ottobre 1995, C-291/92, Finanzamt Uelzen contro Dieter Armbrecht, in http://curia.europea.eu; Id., 6 febbraio 2003, C-185/01, Auto Lease Holland BV e Bundesamt für Finanzen, in http://curia. europea.eu; Id., 21 aprile 2005, C-25/03, cit.).

Ulteriormente, la Corte di giustizia ha, invero, statuito (sentenza del 29 marzo 2007, in causa C-111/05 della Corte di Giustizia):

  1. In considerazione di tutti questi elementi, occorre risolvere la prima questione nel senso che un'operazione che riguarda la fornitura e la posa in opera di un cavo a fibre ottiche che collega due Stati membri ed è collocato in parte fuori dal territorio della Comunità deve essere considerata come una cessione di beni ai sensi dell'art. 5, n. 1, della sesta direttiva, quando risulta che, in seguito ai collaudi eseguiti dal fornitore, il cavo sarà trasferito al cliente, che potrà disporne come proprietario, che il prezzo del cavo vero e proprio rappresenta una parte chiaramente preponderante del costo totale della detta operazione e che i servizi del fornitore si limitano alla posa in opera del cavo, senza alterarne la natura e senza adattarlo alle esigenze specifiche del cliente”.

Pertanto, risulta chiaro ed evidente che il principio di diritto affermato dalla Corte di giustizia è teso a qualificare un’operazione come cessione di beni ove:

  • la volontà delle parti sia quella di trasferire la proprietà dei beni definitivamente al cessionario;
  • il valore dei beni ceduti sia prevalente rispetto alle attività di lavorazione;
  • le attività di lavorazione non alterano la natura dei beni ceduti.

 

 

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