Chi sopravvive per poche ore a un sinistro ha diritto al risarcimento?

Come noto, ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale anche lo sventurato il quale non muore nell’immediatezza di un sinistro, bensì sopravvive anche per pochissime ore dopo l’evento. Il principio è stato rimarcato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza del 6 ottobre 2020, nr. 21508.
Trattavasi del caso di una collisione tra un ciclomotore e una autovettura. Il conducente del motorino, immediatamente condotto al reparto di terapia intensiva del più vicino nosocomio, vi decedeva a distanza di un paio di giorni.
La Corte d’Appello territorialmente competente, in secondo grado, aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni iure hereditario sulla base di un orientamento giurisprudenziale consolidato. Quello cioè in virtù del quale – onde poter chiedere e ottenere il ristoro di questo tipo di pregiudizio – la sopravvivenza della vittima primaria deve essersi protratta per un “apprezzabile lasso di tempo”.
Orbene, la Cassazione ha preliminarmente ribadito il suo orientamento, oramai granitico e inscalfibile, relativo alla non risarcibilità del “diritto alla vita” in quanto tale (e a favore del soggetto deceduto il quale trasmetterebbe poi il relativo diritto risarcitorio ai propri eredi): “È necessario ribadire che in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo” (Cass., Sez. Un., 22/07/2015, n. 15350).
Neppure l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dove si cita l’intangibile “diritto alla vita”, è idoneo a sovvertire tale indirizzo. Infatti, trattasi di una norma generica che non impone – nell’ipotesi di morte immediata conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito – la attribuzione di una tutela risarcitoria. Il nostro ordinamento, quanto ai pregiudizi ristorabili ex art. 1223 c.c., si fonda sulla categoria del “danno conseguenza”. La morte estingue la personalità giuridica dell’unico soggetto titolato a far valere il diritto alla vita e pertanto, come anzidetto, il decesso (danno evento per eccellenza) non potrà essere risarcito ad alcuno: né all’unica persona teoricamente in grado di accampare pretese giacché, per l’appunto, la sua capacità giuridica è cessata con la morte; né, tantomeno, ai di lei eredi perché il relativo diritto non è suscettibile di trasmettersi (insieme agli altri facenti parte del compendio ereditario) dal patrimonio del de cuius al patrimonio degli eredi.
Al netto di questa categoria di danno, mai risarcibile per quanto anzidetto, agli eredi possono spettare due tipologie di ristoro da far valere jure hereditatis: da un lato il danno biologico temporaneo terminale ovverossia il danno biologico stricto sensu (vulnus al bene salute); dall’altro, il danno non patrimoniale morale da “lucidità agonica” laddove la persona, poi deceduta, sia rimasta in istato di cosciente attesa del proprio imminente (nonchè percepito come “ineluttabile”) trapasso.
Nel caso specifico, secondo gli Ermellini la Corte d’Appello era partita da un presupposto erroneo: e cioè che la vittima non fosse sopravvissuta per un lasso di tempo apprezzabile giacchè l’incidente era avvenuto il 3 dicembre 2004 e la morte era intervenuta la mattina del 5 dicembre immediatamente successivo. Nulla di più sbagliato, a dire della Suprema Corte.
La decisione, infatti, non risulta conforme all’orientamento consolidato della giurisprudenza di merito e di legittimità. Secondo il quale la persona che, ferita, non muoia immediatamente, può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi: 1) il danno biologico temporaneo – che di prassi è riconosciuto solo per sopravvivenze superiori alle 24 ore (tale essendo la durata minima, per convenzione medico-legale, di apprezzabilità dell’invalidità temporanea) – che andrà accertato senza riguardo alla circostanza se la vittima sia rimasta, o meno, cosciente; 2) il danno non patrimoniale consistito nella formido mortis, che andrà accertato caso per caso, e potrà sussistere solo se e laddove la vittima abbia convissuto con la lucida consapevolezza della propria sorte irrevocabilmente “segnata” (Cass. 05/07/2019, n. 18056).
Avv. Francesco Carraro
carraro@avvocatocarraro.it
Articolo del: