E’ lecito vendere la cannabis light?


Le recenti sentenze della Cassazione relativamente alla possibilità di commerciare la cannabis sativa da parte dei cannabis store
E’ lecito vendere la cannabis light?

C’è una domanda di estrema attualità giuridica alla quale non è facile dare una risposta: è lecita la commercializzazione della cannabis light?

In seguito all’emanazione della Legge 242 del 2016, sono nati come funghi sul nostro territorio nazionale i cannabis store, negozi che vendono le infiorescenze ed altri prodotti derivati della cosiddetta canapa legale.
Nella giurisprudenza di legittimità, però, ristagna un altalenante dubbio circa la possibilità di commercializzare la cannabis light.

Il dettato normativo non è chiaro sul punto e costringe gli interpreti ad un faticoso lavoro di collazione, che ha prodotto pronunce della Suprema Corte tra loro contrastanti.
Ma partiamo dall’inizio.

La legge 242/2016 ha introdotto alcune disposizioni tese alla promozione della coltivazione della filiera agroindustriale della canapa, che consente all’agricoltore di coltivare le 62 varietà della cannabis sativa L quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell'impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità.
La coltivazione delle varietà di canapa del tipo sativa, è consentita senza necessità di autorizzazione e l’agricoltore è tenuto a coltivare canapa il cui contenuto complessivo di THC resti tra 0,2 per cento e lo 0,6 per cento.
Qualora la percentuale esorbiti dal suddetto limite, gli organi accertatori devono provvedere al sequestro e alla distruzione del prodotto, restando comunque esclusa la responsabilità dell’agricoltore.

Orbene, secondo un’interpretazione restrittiva che la Cassazione ha mostrato sinora di preferire, la menzionata disciplina si riferisce esclusivamente alle coltivazioni e non alla possibilità di commerciarne i prodotti, quali infiorescenze (marijuana) e resine (hashish).
L’orientamento ha avallato una serie di attività di repressione poste in essere dalle Procure della Repubblica di tutto il territorio nazionale che hanno portato a sequestrare le infiorescenze poste in vendita dai cannabis store e ad avviare procedimenti penali per la violazione dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Il ragionamento giuridico contenuto in siffatte pronunce è così riassumibile: la cannabis sativa L, contenendo il principio attivo tetraidrocannabinolo (THC) è a tutti gli effetti sostanza stupefacente, pertanto la commercializzazione da parte dei negozi dedicati è punita come qualsiasi altra cessione di sostanza stupefacente.
Peraltro, argomenta la Cassazione, all’interno delle tabelle (la II), allegate d.P.R. n. 309 del 1990 e contenenti il catalogo di tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope, è genericamente indicata come sostanza vietata la cannabis, comprensiva quindi di tutte le possibili varianti, tra cui appunto la sativa.
Questo, in buona sostanza, l’orientamento, confermato da ultimo dalla Cassazione n. 56737/2018, che ha fatto porre in essere decine di sequestri di infiorescenze o resine di cannabis sativa, giacché, come detto, l’esenzione introdotta dalla citata legge del 2006 si riferisce esclusivamente all’agricoltore non, dunque, al commerciante.
In questo panorama giurisprudenziale s’inserisce la recentissima e interessante pronuncia della Sesta Sezione della S.C. n. 4920 del 2018, depositata il 31 gennaio 2019, che esordisce nelle proprie considerazioni in diritto affermando che per risolvere la presente questione occorre una preliminare analisi logico-giuridica fra i dati normativi in essere (D.P.R. 309/1990 e L. 242 del 2016).

Relativamente alla Legge del 2016 la Cassazione ribadisce che sono ivi indicate le finalità per le quali la coltivazione della canapa è consentita, ma non tratta della commercializzazione della stessa, ancorché “risulta del tutto ovvio che la commercializzazione sia consentita per i prodotti della canapa oggetto del sostegno e della promozione”, tuttavia tra produttori ed aziende di trasformazione del prodotto, giacché la legge è incentrata, come detto, sulla produzione e non sulla commercializzazione.
Pertanto, da questo passaggio motivazionale, la S.C. ritiene pacifico che si possa commerciare il prodotto della cannabis sativa, fra cui anche le infiorescenze, tra produttore e azienda di trasformazione del prodotto, ritenendo pertanto concettualmente lecito il commercio all’ingrosso.

La questione che ci occupa e che questa pronuncia si premura di risolvere è se la commercializzazione possa riguardare anche la vendita al dettaglio – e cioè da parte dei cannabis store – delle infiorescenze contenenti principio attivo nei limiti di legge.
Secondo questa pronuncia, l’orientamento restrittivo, di cui si è dato atto, trascura che è nella naturale attività economica che i prodotti della filiera agroindustriale della canapa siano commercializzati e che in assenza di specifici dati normativi non emergono ragioni per limitarne il commercio.

Peraltro, tale interpretazione è già stata fatta propria da alcune pronunce di merito così come dalla dottrina, secondo cui la liceità della commercializzazione costituirebbe un corollario logico-giuridico dei contenuti della L. 242 del 2016.
In altri termini, secondo la Corte dalla “liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del D.P.R. 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto d.P.R.”.
Nel prosieguo del proprio passaggio argomentativo la S.C. afferma che deve valere il principio generale secondo cui la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di divieti specifici, ritenentesi consentita nell’ambito del generale potere (agere licere) delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi e dall’altro lato, deve essere operato un corretto inquadramento alla stregua del principio di tassatività.
E siccome il legislatore, nella fissazione del limite di 0,6% di THC, ha operato una valutazione di equilibrio tra le esigenze di tutela della salute pubblica e la legittima commercializzazione (per quanto sopra sostenuto) dei prodotti delle coltivazioni, qualora il commerciante di infiorescenze di cannabis dimostri che la provenienza della sostanza è lecita, il sequestro probatorio - e in generale la responsabilità penale - non può avere luogo.
Soltanto se emergono specifici elementi di valutazione che rendano ragionevole dubitare la veridicità dei dati offerti dal rivenditore e lascino ipotizzare la sussistenza di un reato ex art. 73 D.P.R. 309/90 allora l’A.G. può procedere al sequestro delle infiorescenze, fatto salvo in ogni caso, sul piano amministrativo, il prelievo di campioni delle infiorescenze per la verifica dei valori soglia di THC.

La presente sentenza è altresì interessante per alcuni spunti argomentativi relativi a tematiche strettamente connesse quali la fattispecie del consumatore delle infiorescenze acquistate presso – gli ormai comuni – cannabis store; ebbene, secondo la Corte il consumatore-fumatore usufruisce liberamente di un bene lecito, giacché contenente percentuale inferiore alla soglia prevista dal legislatore ritenuta dunque ininfluente “secondo un significato giuridicamente rilevante per il D.P.R. n. 309 del 1990”.
Di talché deriva che siffatto consumo non può costituire illecito ammnistrativo ex art. 75 D.P.R. n. 309 del 1990 e nemmeno che il superamento della soglia dello 0.6% comporti immediatamente una rilevanza penale della condotta “che invece, andrà comunque - ricostruita e valutata secondo i vigenti parametri di applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990”.
Nel caso in cui il sequestro probatorio di cannabis sativa – debitamente motivato – riveli in seguito ad accertamento un valore (medio) superiore allo 0,6% “come per l'agricoltore, così anche per il commerciante nel caso di sequestri (e distruzioni) dei prodotti a causa del superamento del limite dello 0,6% è esclusa la responsabilità penale e, quindi, è ammissibile soltanto il sequestro in via amministrativa (L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 7). A una diversa conclusione potrà giungersi soltanto se risulti che il commerciante sia stato consapevole (a fortiori, se artefice) di trattamenti del prodotto successivi all'acquisto dal coltivatore e volti a incrementarne il contenuto di THC”.

Dunque, la presente pronuncia mostra di preferire il buonsenso al dettato normativo, ritenendo che il silenzio del legislatore nella legge 242/2016 non può essere letto come indicativo della volontà di vietare il commercio della cannabis sativa con THC nei limiti di legge ed, anzi, che il commercio costituisce una conseguenza logico-giuridica della liceità della coltivazione.

 

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di Avv. Dario Chielli

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