Condannata l’amante che minaccia di rivelare il tradimento
La Corte d’Appello di Bologna conferma la decisione di primo grado che condanna una donna per il reato di estorsione.
L’imputata aveva minacciato l’ex amante di rivelare ai suoi famigliari la relazione in corso tra i due da oltre un decennio e, in tal modo, si era fatta consegnare dall’ex, dapprima, la somma di euro 1.000,00 e, successivamente, di ulteriori euro 5.000,00.
L’articolo 629 c.p. ("Estorsione") prevede che: "Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000".
L’ex amante, nel corso del giudizio di primo grado, aveva anche ammesso di aver minacciato l’uomo "dicendogli che sarebbe andata a casa sua ad informare la moglie del loro rapporto ultradecennale se non avesse ottenuto il resto del denaro che l’uomo dapprima le aveva promesso, ma che poi le aveva dato solo in parte, denaro che riteneva le spettasse di diritto, se non quale contropartita per una dolorosa e problematica interruzione di gravidanza, quantomeno perché le era stato promesso".
La donna ricorre in Cassazione ove si costituisce anche l’ex. Secondo la difesa dell’uomo, lo scopo del ricorso avversario era di inquadrare la richiesta di denaro non in un’ottica estorsiva, ma come una sorta di pretesa del rispetto di un accordo tra i due, in forza del quale il pagamento di denaro sarebbe avvenuto come contropartita per l’interruzione della gravidanza. Ma tale ricostruzione dei fatti non era assolutamente corretta e già esclusa anche dai giudici del merito.
Secondo la Suprema Corte (Cass. pen., sent. n. 9750/2020) la decisione contro la donna adottata dal Tribunale, prima, e confermata dalla Corte d’appello, è corretta: la tesi secondo la quale la donna era convinta di avere un effettivo diritto a ricevere le somme richieste era del tutto infondata e non poteva essere condivisa poiché, nel caso in esame, non esisteva alcuna pretesa che potesse considerarsi effettivamente meritevole di tutela.
Non solo: la donna viene condannata dalla Corte anche a pagare le spese processuali del giudizio e la somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
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