Cos’è il mobbing?
E’ un fenomeno sociale che trova il suo epicentro nel mondo del lavoro
Il «mobbing» è un fenomeno sociale che trova il suo epicentro nel mondo del lavoro, e più specificatamente nell'ambito delle molestie morali e delle persecuzioni psicologiche esercitate nel contesto di attività lavorative.
Nell'ambito della psicologia del lavoro vi sono diverse definizioni del mobbing, ma il punto di partenza è da ritenersi nella nozione che è stata data da Leymann, il quale, distingue tre gruppi di forme di comportamento: un gruppo di azioni verte sulla comunicazione con la persona attaccata, tendendo a portarla all'assurdo o alla sua interruzione; un altro gruppo di comportamenti punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla (pettegolezzi, offese, ridicolizzazioni per esempio su handicap fisici, derisioni pubbliche delle sue opinioni o idee, umiliazioni). Infine, le azioni del terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione della persona, (non le viene dato alcun lavoro o le vengono affidati compiti senza senso, o umilianti); solo se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente e per molto tempo, si possono chiamare mobbing".
Harald Ege, ricordando che "il mobbing non è una malattia, ma una situazione conflittuale che può divenire malattia", ha inquadrato il fenomeno come una "forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori".
In definitiva, con la parola "mobbing" si indica una forma di aggressione/prevaricazione ripetitiva e continuativa, realizzata nei confronti di uno o più lavoratori da parte di superiori, colleghi o dalla stessa azienda, che si snoda attraverso diversi comportamenti tutti riconducibili ad un medesimo quadro.
Tutte le definizioni mettono in luce come il mobbing sia piuttosto aperto ed idoneo ad accogliere una pluralità di fattispecie, che variano sia per le condotte attuate per accerchiare la vittima, sia per i soggetti che sono di volta in volta parte attiva dell'azione mobbizzante.
La psicologia del lavoro ritiene essenziali, quali caratteristiche fondamentali del mobbing, sia la quantità delle azioni persecutorie (in altri termini la loro frequenza e ripetizione) e sia la durata nel tempo dell'azione mobbizzante, la sussistenza della quale, deve essere valutata caso per caso, ossia, confrontando il parametro del tempo con tutti gli altri tasselli che contribuiscono a qualificare una determinata condizione lavorativa come mobbing.
Le variabili del mobbing non sono solo quantitative (tempo e numero delle azioni vessatorie), ma anche qualitative: il tipo di condotte che si inseriscono nell'azione mobbizzante, il particolare percorso dinamico, attraverso il quale si snoda il mobbing, e gli obiettivi perseguiti dai persecutori sono tutti parametri di riferimento che caratterizzano il fenomeno in questione proprio dal punto di vista qualitativo, e che di fatto contribuiscono a spostare l'angolo visuale da un approccio squisitamente temporale.
Possono essere definiti comportamenti mobbizzanti tutti gli atti discriminatori o vessatori posti in essere nei confronti dei lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore o da soggetti posti in posizione sovraordinata (mobbing verticale) ovvero da altri colleghi non sovraordinati (mobbing orizzontale) che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale.
Va così delineandosi un quadro piuttosto ampio in cui, oltre agli atti tipici già individuati dalla giurisprudenza ossia demansionamento, dequalificazione, abuso del potere gerarchico, molestie, discriminazioni sessuali, di lingua e di religione, viene dato autonomo rilievo anche a comportamenti finalizzati, seppur in forma velata ed indiretta a intimorire o avvilire il lavoratore; possono essere compresi nella fattispecie mobbing ed essere sanzionati anche l'atteggiamento ostile, poco cooperativo nei confronti del dipendente, i maltrattamenti verbali e le offese personali, il discredito gettato nei suoi confronti.
Costituisce mobbing, inoltre, anche emarginare subdolamente il lavoratore, non mettendolo al corrente delle informazioni relative alla normale attività di lavoro o non facendolo partecipare alle attività formative e di riqualificazione del personale.
Si tratta di tutti quei piccoli gesti quotidiani che, proprio perché non assumono un’autonoma rilevanza sotto il profilo della responsabilità possono venire impiegati dal datore di lavoro per "sfibrare" lentamente il lavoratore e convincerlo dell'opportunità di abbandonare il posto di lavoro.
Nell'ambito della psicologia del lavoro vi sono diverse definizioni del mobbing, ma il punto di partenza è da ritenersi nella nozione che è stata data da Leymann, il quale, distingue tre gruppi di forme di comportamento: un gruppo di azioni verte sulla comunicazione con la persona attaccata, tendendo a portarla all'assurdo o alla sua interruzione; un altro gruppo di comportamenti punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla (pettegolezzi, offese, ridicolizzazioni per esempio su handicap fisici, derisioni pubbliche delle sue opinioni o idee, umiliazioni). Infine, le azioni del terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione della persona, (non le viene dato alcun lavoro o le vengono affidati compiti senza senso, o umilianti); solo se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente e per molto tempo, si possono chiamare mobbing".
Harald Ege, ricordando che "il mobbing non è una malattia, ma una situazione conflittuale che può divenire malattia", ha inquadrato il fenomeno come una "forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori".
In definitiva, con la parola "mobbing" si indica una forma di aggressione/prevaricazione ripetitiva e continuativa, realizzata nei confronti di uno o più lavoratori da parte di superiori, colleghi o dalla stessa azienda, che si snoda attraverso diversi comportamenti tutti riconducibili ad un medesimo quadro.
Tutte le definizioni mettono in luce come il mobbing sia piuttosto aperto ed idoneo ad accogliere una pluralità di fattispecie, che variano sia per le condotte attuate per accerchiare la vittima, sia per i soggetti che sono di volta in volta parte attiva dell'azione mobbizzante.
La psicologia del lavoro ritiene essenziali, quali caratteristiche fondamentali del mobbing, sia la quantità delle azioni persecutorie (in altri termini la loro frequenza e ripetizione) e sia la durata nel tempo dell'azione mobbizzante, la sussistenza della quale, deve essere valutata caso per caso, ossia, confrontando il parametro del tempo con tutti gli altri tasselli che contribuiscono a qualificare una determinata condizione lavorativa come mobbing.
Le variabili del mobbing non sono solo quantitative (tempo e numero delle azioni vessatorie), ma anche qualitative: il tipo di condotte che si inseriscono nell'azione mobbizzante, il particolare percorso dinamico, attraverso il quale si snoda il mobbing, e gli obiettivi perseguiti dai persecutori sono tutti parametri di riferimento che caratterizzano il fenomeno in questione proprio dal punto di vista qualitativo, e che di fatto contribuiscono a spostare l'angolo visuale da un approccio squisitamente temporale.
Possono essere definiti comportamenti mobbizzanti tutti gli atti discriminatori o vessatori posti in essere nei confronti dei lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore o da soggetti posti in posizione sovraordinata (mobbing verticale) ovvero da altri colleghi non sovraordinati (mobbing orizzontale) che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale.
Va così delineandosi un quadro piuttosto ampio in cui, oltre agli atti tipici già individuati dalla giurisprudenza ossia demansionamento, dequalificazione, abuso del potere gerarchico, molestie, discriminazioni sessuali, di lingua e di religione, viene dato autonomo rilievo anche a comportamenti finalizzati, seppur in forma velata ed indiretta a intimorire o avvilire il lavoratore; possono essere compresi nella fattispecie mobbing ed essere sanzionati anche l'atteggiamento ostile, poco cooperativo nei confronti del dipendente, i maltrattamenti verbali e le offese personali, il discredito gettato nei suoi confronti.
Costituisce mobbing, inoltre, anche emarginare subdolamente il lavoratore, non mettendolo al corrente delle informazioni relative alla normale attività di lavoro o non facendolo partecipare alle attività formative e di riqualificazione del personale.
Si tratta di tutti quei piccoli gesti quotidiani che, proprio perché non assumono un’autonoma rilevanza sotto il profilo della responsabilità possono venire impiegati dal datore di lavoro per "sfibrare" lentamente il lavoratore e convincerlo dell'opportunità di abbandonare il posto di lavoro.
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