Counseling con Ciabattoni Letizia: il senso di colpa va ridimensionato
Mamme che si sentono in colpa se dedicano alcune ore settimanali alla cura di sé, figli che ormai adulti si sentono in colpa per non aver realizzato i sogni dei propri genitori, colleghi che sentono il peso della colpa nell’aver accettato di fare qualche ora di straordinario riscuotendo così a fine mese una paga più corposa dei colleghi.
Come ben scriveva John Dryden, poeta inglese della fine del 1600: “Solamente l’uomo ostacola la sua felicità con cura, distruggendo ciò che è, con pensieri di ciò che dovrebbe essere”.
Stiamo parlando di un’emozione che ci logora, consuma la nostra autostima (il valore che attribuiamo a noi stessi), l’autoefficacia (la possibilità di interagire con efficacia con il nostro ambiente circostante di riferimento) e la nostra sicurezza.
Ci rende inferiori agli occhi degli altri, ci mette nella condizione di mancata percezione positiva di noi stessi.
Compare, nell’uomo, verso i 18 mesi di vita, con lo scopo di ricordarci della presenza dell’altro da rispettare e di un codice etico e morale al quale sottostare per il quieto vivere sociale.
La colpa, infatti, svolge anche funzione adattiva indispensabile alla crescita personale, all’accrescimento del senso di responsabilità e del dovere e ci permette, se moderata e non patologica, di capire che qualcosa non va, che potremmo aver commesso un errore, ferito qualcuno, permettendoci così di porre rimedio, riparare un “danno” compiuto anche involontariamente, grazie all’esternazione di scuse dovute e comportamenti atti a ristabilire gli equilibri.
“Ma allora proprio non vi è via d’uscita, Dottoressa?”, mi è stato chiesto di recente da Angela. Rispondo, cara Angela, che si esce dalla spirale del senso di colpa con la consapevolezza e l’accettazione che i propri errori sono spesso e volentieri riparabili.
Non possiamo accollarci un senso eccessivo della responsabilità verso noi stessi e l’umanità intera. Non tutto dipende da noi. Non siamo stati eletti a martiri con lo scopo di espiare le colpe proprie e del resto degli abitanti della Terra. Non semplice, visto che gran parte dei nostri sensi di colpa hanno origini nelle interiorizzazioni delle norme che i nostri genitori ci hanno lasciato in eredità.
Un grande terapeuta dei primi del novecento, Fritz Perls, sosteneva che: vivendo imprigionati nei propri cliché e nelle norme che regolano la società, l’individuo sviluppa le proprie nevrosi in quanto è come se viaggiasse tentando di tenere sempre bene a mente “ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare”, e non “ciò che vuole e ciò che sente”, rinunciando in tal modo alla propria autenticità.
Questo ci fa capire quanto il senso di colpa possa essere considerato come un “forte ostacolo alla piena autorealizzazione di sé”.
Ma oltre alle radici genitoriali, sembra anche che l’emozione del senso di colpa sia strettamente correlato con una immagine ideale di se stessi troppo distante dalla realtà e poco realistica. Aspettative troppo elevate che rischiano di non realizzarsi e che non permettono una vera conoscenza di noi stessi in maniera piena e completa. Ecco che alla luce di quanto scritto sino ad ora, possiamo provare a liberarci da questa seconda pelle del senso di colpa capendo, innanzitutto, se abbiamo realmente arrecato un danno a qualcuno, anche se fosse, magari è accaduto in maniera del tutto involontaria, o se più che altro il senso di colpa che proviamo sia dovuto ad un incresparsi della nostra immagine ideale e al nostro senso del limite: ricordiamoci di essere umani e che come tali possiamo sbagliare e avere dei limiti.
Accettiamo la nostra fallibilità, concedendoci di essere più indulgenti con noi stessi in caso di fallimento, provando a circoscriverlo come episodio singolo e non come declino di tutta la nostra esistenza per generazioni e generazioni. Assumerci le nostre responsabilità è doveroso ma convincersi di potere detenere il controllo del mondo intero, essere rigidi e bacchettoni con noi stessi all’inverosimile, non solo ci rende frustarti e perennemente insoddisfatti e arrabbiati, ma ci allontana dalla realtà dei fatti e potrebbe compromettere le relazioni con gli altri, che esse siano di tipo lavorativo o affettivo.
Evitiamo, se possibile, di identificarci nel mito di Atlante, punito da Zeus e costretto a tenere sulle proprie spalle l'intera volta celeste. Impariamo a conoscere noi stessi e ad accettare i limiti nostri e quelli altrui. Lasciamo le aspettative elevate al mondo del Fantasy, un mondo ricco di magia e di rinascite degne dell’onirico ma troppo spesso lontano dalla realtà quotidiana.
Parola di Counselor!
Ti può interessare anche l'articolo dello stesso autore "Counseling con Ciabattoni Letizia: senso del dovere bye bye. Oggi scelgo il piacere!"
Articolo del: