Danno esistenziale e da morte propria
Commento alla sentenza della Cassazione civile n. 1361/2014
La sentenza n. 1361 del 23/01/2014 è sicuramente di grande interesse e, in relazione al danno da morte, di rilevanza epocale. I giudici della Suprema Corte si sono espressi per la prima volta, e si spera definitivamente, in senso favorevole al riconoscimento danno "da morte", ovvero del danno patito dalla vittima di un fatto illecito per la mera privazione del diritto alla vita e che genera istantaneamente il diritto al risarcimento nella sfera giuridica degli eredi. La sentenza è significativa anche perché affronta in modo organico tutti gli aspetti del danno non patrimoniale, sia riguardo ai principi, sia con riferimento ai criteri di liquidazione. Oltre alla innovativa statuizione in punto danno da morte, gli ermellini riaffermano in modo chiaro la sussistenza, nel nostro ordinamento giuridico, del danno esistenziale; ciò con buona pace di coloro che dalle prime letture della nota sentenza delle Sezioni Unite (SS.UU., sentenza 11.11.2008 n° 26972), che aveva cercato di far chiarezza sul danno non patrimoniale, avevano sussunto la non configurabilità del danno esistenziale. Si riassumono i temi affrontati con estrema lucidità dalla terza sessione dalla Cassazione. IL DANNO ESISTENZIALE La Suprema Corte ha affrontato la figura del danno esistenziale in relazione al danno parentale (perdita di un congiunto), atteso che quello era il thema decidendum del ricorso; tuttavia, quanto affermato in sentenza, ha connotazioni chiaramente generali. Il danno esistenziale, riafferma la Terza sessione, così come definito dalle Sezioni Unite, consiste in un pregiudizio di natura non meramente emotiva, oggettivamente accertabile, che altera, nella sfera del "fare", le abitudini di vita e la sfera relazionale del danneggiato, portandolo a scelte di vita diverse ed impedendogli la realizzazione della sua personalità. Occorre quindi, ai fini dell’accertamento della sussistenza del danno esistenziale, che il danneggiato, a causa della lesione patita, sia costretto a modificare il proprio stile di vita in termini peggiorativi, operando scelte esistenziali diverse; insomma occorre che lo sconvolgimento della sua esistenza produca in lui un vero e proprio cambiamento di personalità. In punto la sentenza richiama alcune precedenti e recenti decisioni (Cass.Civ 16/02/2012 n.2228 - Cass.Civ. 13/05/2011 n. 10527 - Cass.Civ. 6/04/2011 n.7844). Il danno esistenziale, così come già evidenziato dalla Corte di legittimità in precedenti sentenze, puo’ essere conseguenza della sola lesione del rapporto parentale e non necessariamente della sua perdita; ciò accade quando il descritto pregiudizio colpisce il congiunto della vittima di una grave lesione personale. Il danno esistenziale, così come raffigurato, è autonomo rispetto al danno morale ed al danno biologico. Quanto al suo accertamento, esso deve essere sicuramente provato e non può essere considerato in re ipsa, pur potendosi dare la prova della sua sussistenza per presunzioni. Importante considerazione svolge nuovamente la Corte in ordine alla omnicomprensività della categoria del danno non patrimoniale, concetto espresso dalle Sezioni Unite, che ha portato i detrattori del danno esistenziale a considerarlo assorbito e privo di identità propria. La terza sezione ribadisce quanto dalla stessa già affermato in precedenza (Cass.Civ.III, 23056/2009), ovvero che le Sezioni Unite, pur asserendo che il danno non patrimoniale è unitario e non suddivisibile in singole categorie, non negano affatto che al suo interno, ai fini della corretta descrizione del pregiudizio patito dal danneggiato, si possano individuare singole voci, quali il danno morale e quello esistenziale. Invero il sottoscritto non nega di non aver compreso l’esigenza della giurisprudenza di legittimità di individuare un’unica categoria di danno, al fine di evitare duplicazioni dello stesso pregiudizio, per poi suddividerla necessariamente in sottovoci proprio per poter enucleare singoli aspetti di nocumento. Si tratta, a sommesso avviso dello scrivente, di una forzatura dialettica, svuotata di significato pratico, là dove, poi, di fronte al caso concreto, occorre operare una distinzione ontologica delle voci di danno al fine di non duplicarne il risarcimento. Anzi, a ben vedere, si tratta forse di una forzatura contraddittoria; perché unire in un unico concetto diverse figure giuridiche formatesi giurisprudenzialmente dall’esperienza delle vicende umane e processuali, là dove la separazione è necessaria proprio ai fini della decisione processuale? Viene alla mente (operando un’analogia o una similitudine tra dottrine ben differenti) la consunstanzialità della Trinità, solo che per la dottrina cattolica le tre Persone della Trinità hanno la stessa sostanza, pur essendo distinte, mentre danno biologico, danno morale e danno esistenziale oltre ad essere accomunati dalla loro essenza di "danno conseguenza" non sono fatti, forse, della stessa sostanza. Che, al fine di evitare la duplicazione dei risarcimenti, poco importi considerare il danno non patrimoniale come un tutt’uno o frazionarlo in diverse categorie, lo sottende, ad avviso dello scrivente, la stessa Cassazione, là dove afferma che, se il giudice ha già considerato nella liquidazione del danno morale "i profili relazionali in termini propri del danno esistenziale", non si potrà procedere alla liquidazione di un’ulteriore voce di danno, non contando il nomen juris, ma l’effettiva liquidazione del pregiudizio; se invece gli aspetti relazionali ed esistenziali non hanno trovato giusto riconoscimento, da parte del giudice, nell’ambito del risarcimento del danno biologico o morale, allora dovranno essere presi in considerazione separatamente. In ogni caso, ed è ciò che conta, diventa difficile oggi, a distanza di sei anni dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite, affermare ancora che il danno esistenziale non esista, così come hanno sostenuto in buona ed in mala fede alcuni operatori del diritto, vicini idealmente o sentimentalmente, agli enti assicurativi deputati, alla fine dei conti, a sostenere i risarcimenti. IL DANNO DA PERDITA DELLA VITA Di estremo interesse è la sentenza in commento, con riferimento al così detto danno da perdita della vita. La Suprema Corte prende le mosse, per poi lungamente disquisire, dalla sentenza della Corte Costituzionale 372/1994, la quale ha negato il diritto al risarcimento da perdita della vita (rigettando la questioni di costituzionalità sollevata con riferimento all’art. , 2043 C.C.), sul rilievo che oggetto del risarcimento può essere solo la perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, là dove la morte immediata non è invero una perdita a carico della persona offesa, in quanto la stessa non è più in vita. Invero il dictat della Corte Costituzionale mi richiama alla memoria il pensiero di Epicuro "Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú." La vita non sarebbe più una perdita risarcibile per chi non è più, così che il danno biologico da morte istantanea non è risarcibile . La sentenza in esame richiama un altro concetto espresso nel tempo dalla Cassazione per negare il risarcimento da perdita di vita, ovvero che "per il bene della vita è inconcepibile una forma di risarcimento anche solo per equivalente". Alla luce di siffatta impostazione, nel tempo, continua la motivazione della sentenza, in giurisprudenza si è ritenuto di dare valore al danno biologico e morale patito dalla vittima per un periodo di tempo significativo, prima del decesso (danno biologico e morale terminale), così che il danno tanatologico è stato ritenuto risarcibile dai giudici di legittimità, solo in caso di permanenza in vita del lesionato per un tempo apprezzabile, durante il quale egli abbia avuto coscienza della sua catastrofica situazione. Anche le Sezioni Unite del 2008 avevano fatto proprio questo concetto (danno catastrofale) . La Terza Sezione richiama poi puntualmente quella giurisprudenza di merito che aveva ritenuto risarcibile, iure hereditatis, il danno da perdita della vita in sé stesso, anche in caso di morte istantanea (Tribunale di Venezia 15 giugno 2009). La sentenza fa poi un excursus delle argomentazioni delle più recenti sentenze della Cassazione in tema di danno da perdita di vita, rilevando che è stato sostenuto: - che non è giuridicamente concepibile, che dal soggetto che muore venga acquisito un diritto derivante dal fatto stesso della sua morte (chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non essere più).Cass., 24/3/2011, n. 6754;. - che nel nostro diritto civile il risarcimento del danno non riveste funzione sanzionatoria ma consolatoria, funzione che in caso di morte, per forza di cose, non è attuabile a favore del defunto; - che il risarcimento, nel caso in questione, avrebbe il solo risultato di far arricchire gli eredi - Cass., 17/7/2012, n. 12236 ; La sentenza rileva poi, in contrapposizione agli assunti precedentemente richiamati, come in dottrina si sia discusso, relativamente alla perdita della vita, in termini di perdita di chances, e come, in ogni caso, "la perdita della vita, bene massimo della persona, non può lasciarsi priva di tutela (anche ) civilistica" e che "il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all’effettivo sentire sociale nell’attuale momento storico". A questo punto i giudici della Terza Sezione entrano nel vivo del proprio revirement giurisprudenziale, richiamando alcune osservazioni della dottrina e della giurisprudenza di merito a sostegno della tesi della risarcibilità del danno da perdita della vita. Ricorda la Corte, come si sia rilevato che se viene risarcita la compromissione della salute, non si vede come non debba essere ristorato il danno che coincide con la sua massima compromissione. Del resto, quello che viene trasmesso agli eredi non è il diritto alla salute, ma l’aspettativa patrimoniale che deriva dalla sua lesione. Ancora; se la morte determina una lesione della salute, nel senso che la elimina alla radice, l’evento morte determina, sul piano logico giuridico, la nascita di una pretesa risarcitoria spettante agli eredi, in virtù dell’apertura della successione al momento della morte, come stabilito dall’art. 456 c.c. La Corte fa osservare come in dottrina si sia affermato che le "categorie" del diritto non esistono in natura, ma sono formate dal legislatore per affrontare casi pratici, così che, per spiegare nuovi casi, ben si possono forgiare nuove categorie. Poi, ancora, tra gli altri argomenti citati, la Cassazione richiama il principio postulato in dottrina, secondo cui la perdita del bene vita, sia un danno non già del singolo individuo che lo subisce, bensì dell’intera collettività, in quanto "la morte rappresenta certo un danno (il più grave fra quelli possibili) per la persona, ma anche un costo per la società al quale deve corrispondere un risarcimento capace ( sul terreno civilistico e non solo quindi sul versante delle sanzioni penali) di trasmettere ai consociati il disvalore dell’uccisione e la deterrenza della reazione dell’ ordinamento". Ancora, la Corte richiama l’assunto secondo cui risulta riduttivo ed errato sostenere che il risarcimento del danno da morte non gioverebbe alla vittima, considerato che la prestazione economica andrebbe a favore degli eredi, "in quanto la vittima trae vantaggio dall’acquisizione del relativo credito, contribuendo esso ad accrescere l’eredità lasciata ai propri congiunti". Dopo i plurimi richiami dottrinari e giurisprudenziali, la sentenza affronta direttamente l’argomento oggetto di esame partendo dal principio sancito dalle Sezioni Unite del 2008, secondo cui solo il danno conseguenza, e non il danno evento, vada risarcito. Anche sulla base di questo assioma, secondo i giudici della Terza Sezione, non si può escludere la risarcibilità del danno da perdita della vita. Infatti, assume la Corte, "La morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto,. Non solo di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo, la vita, che tutto il resto racchiude. Non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze......Non si tratta quindi di verificare quali conseguenze conseguano al danno evento, al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no. Nel più sta il meno." Dopo avere svolto alcuni parallelismi tra la figura giuridica in esame e altre, quale "il diritto al risarcimento danni sorto in capo al nascituro", i giudici della "Terza" concludono: "Va conclusivamente affermato che il danno non patrimoniale da perdita della vita consiste nella perdita del bene vita, bene supremo dell’individuo oggetto di un diritto assoluto e inviolabile dall’ordinamento garantito in via primaria, anche sul piano della tutela civile . Trattasi di danno altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia pertanto dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale ( o catastrofale o catastrofico della vittima, rilevando ex se, nella sua oggettività di perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile. La perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento, né il criterio dell’intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine". "Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale e quindi anteriormente all’exitus, costituendo antologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensi di tutto. Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto { o ragione di credito ) è trasmissibile iure hereditatis, non patrimoniale essendo il bene protetto { la vita}, e non già il diritto al ristoro della relativa lesione". La sentenza in commento apre sicuramente nuove frontiere nella pratica giudiziaria, ma il principio della risarcibilità della perdita del bene vita, è da esserne certi, non troverà immediata uniforme conferma nella giurisprudenza di merito, occorrerà tempo per la sua sedimentazione, in ogni caso, lo scrivente non fatica a dichiararsene incondizionatamente entusiasta.
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