Chi paga le spese processuali? L'indirizzo della Cassazione


La condanna alle spese processuali è da sempre il più efficace dei deterrenti per coloro che intendono dare corso ad un giudizio che potrebbe rivelarsi infondato
Chi paga le spese processuali? L'indirizzo della Cassazione

DECLARATORIA DI INCOSTITUZIONALITA’ DELL’ART. 92 c. 2 C.P.C. SULLA COMPENSAZIONE DELLE SPESE DI LITE – CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA N. 77/2018
IL RITORNO DELLE “GRAVI ED ECCEZIONALI RAGIONI”

La condanna alle spese processuali è da sempre il più efficace dei deterrenti per coloro che intendono dare corso ad un giudizio che potrebbe rivelarsi infondato.

Di regola, infatti, come noto, la condanna alle spese di lite segue la c.d. regola della soccombenza – art. 91 c.p.c. – per cui, in parole povere, chi perde paga.

Così afferma anche la Corte Costituzionale nella sentenza in commento, ove precisa che: “È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa”.

Tuttavia vi è una zona d’ombra, dovuta a diversi possibili fattori, per cui la suddetta regola della soccombenza non è sempre la soluzione più razionale.

Si apre allora la strada della c.d. compensazione delle spese di lite, disciplinata dall’art. 92 c.p.c. il quale, proprio perché si trova a disciplinare una zona d’ombra, è stato oggetto di molteplici riforme, tutte tendenzialmente volte a ridurre la discrezionalità dei giudici, in un’ottica di maggiore certezza del diritto.

In tal senso, l’ultima formulazione del suddetto art. 92 c.p.c., introdotta dal D.L. 132/2014 ed oggi parzialmente censurata dalla Corte, giungeva ad eliminare tout court e a priori ogni discrezionalità del giudicante, imponendo non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» (che era stata introdotta con L. 69/2009), ma tre ipotesi nominate e tassative di compensazione, ovvero:

1 - la soccombenza reciproca (che non è mai mutata);
2 - l’assoluta novità della questione trattata;
3 - il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

L’articolo così formulato, effettivamente, eliminava quasi ogni incertezza, stabilendo regole chiare e inderogabili quanto meno in caso di soccombenza piena (in caso di soccombenza reciproca infatti la discrezionalità del giudice non potrà mai essere del tutto compressa, perché occorre una valutazione caso per caso).

Ebbene la Corte Costituzionale ha ritenuto che il legislatore, questa volta, si sia spinto troppo oltre.

Secondo i Giudici della legge, infatti, la rigidità di queste tre sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, avrebbe “lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa”.

A titolo di esempio nella stessa sentenza vengono individuate altre tre situazioni analoghe, ma non previste dall’art. 92 c.p.c., ovvero: lo ius superveniens, le sentenze di illegittimità della stessa Corte o della Corte Europea che abbiano effetto retroattivo e l’oggettiva e marcata incertezza della questione, non orientata dalla giurisprudenza.

Non rientrerebbe, invece, nell’alveo delle analoghe gravi ed eccezionali ragioni la condizione economica delle parti e, in particolare, la presenza di una parte economicamente più “debole”.

La questione di legittimità era, infatti, stata posta anche con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, secondo comma, Cost., e al trattamento di vantaggio che, secondo il giudice rimettente, sarebbe stato da riconoscere al lavoratore nell’azione di quest’ultimo contro il datore di lavoro.

Ma la Corte ha stabilito che la qualità di "lavoratore" della parte che agisce (o resiste) "non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell'ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all'obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente".

Dunque, fermo restando l’ampliamento dell’art. 92 c.p.c. e il ritorno alla clausola generale, l’eventuale divario economico tra le parti non può essere il solo motivo di compensazione.  

In conclusione, la Corte ha ritenuto che l’elenco contenuto nell’art. 92 c.p.c. non possa essere tassativo e che le tre ipotesi di compensazione normate dal legislatore abbiano “carattere paradigmatico” e svolgano una funzione meramente “parametrica ed esplicativa” della clausola generale, che, in sostanza, torna ad essere quella delle gravi ed eccezionali ragioni (già in vigore dal 2009 al 2014).

È stata infatti dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. “nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

Il tempo ci dirà se e quanto tale statuizione abbia riaperto la strada alla discrezionalità dei giudici, con conseguente sostanziale incertezza del diritto in punto spese.

 

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di Avv. Roberto Dellacasa

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