Dentro una sessione di coaching
Che cosa succede durante un percorso di coaching? Qui uno spaccato della prima sessione
Marco, 48 anni, responsabile della progettazione in un’azienda di alta tecnologia, possiede una rilevante esperienza tecnica ed è dotato di buone capacità di rapporto con il cliente. Quando è stato a capo di un’area di business, ha gestito importanti progetti sia dal punto di vista di processo che di relazione col cliente. È dotato di elevate capacità creative e molto orientato all’innovazione. Possiede buone capacità relazionali che erano ben sollecitate all’interno del precedente ruolo.
...Perché stava facendo una sessione di coaching offerto dall’azienda?
Così molte volte inizia un percorso di coaching: il coach ed il coachee si devono sintonizzare abbastanza velocemente per lavorare insieme. Il coach deve quindi far precedere l’inizio della sessione vera e propria da una introduzione che non sia troppo veloce per chi sta cercando di capirci qualcosa; che dia quindi delle informazioni, ma che non sia troppo lunga perché’ sa già che alla fine della prima sessione il suo interlocutore avrà un’idea molto più chiara di quello che gli sta accadendo senza il bisogno di tante spiegazioni.
La prima parte della sessione fu spesa nel chiarire i punti principali: innanzitutto che il coaching è un’opportunità e non un esame di riparazione: all’azienda costa soldi e non avrebbe senso spenderli per qualcuno su cui non vuol puntare a far crescere. Poi nell’imbastire un’idea di quello che sarebbe accaduto successivamente: la condivisione dell’obiettivo individuato con il responsabile e il riconoscimento, o meno, dello stesso da parte del coachee, seguito dall’inizio del lavoro insieme. Infine nella descrizione del coaching nella sua sostanzialità fatta di domande e sintesi da parte del coach, e del beneficio del coachee in una chiarezza di idee e successivamente strategie da seguire.
Marco ascoltava e non faceva molte domande. Aveva avuto parecchie esperienze nella vita, ma di questa non sapeva proprio che cosa pensare. Il coach gli aveva fatto firmare un accordo di coaching, in cui si individuavano i termini temporali del percorso e il numero di sessioni, si sottolineava la riservatezza, si indicava il potenziamento delle risorse della persona attraverso raggiungimento degli obiettivi. Bello. Dov’era la fregatura?
Nessuna fregatura, si tratta soltanto di ragionare con chiarezza sugli argomenti proposti. Le domande del coach aiutano, alle volte stimolano, a far chiarezza semplicemente perché nella risposta si deve far capire all’altro che cosa si intende. Eppoi perché propongono, provocano, spingono a nuove riflessioni, in una progressione di pensiero che fa giungere a conclusioni a cui non si aveva mai pensato.
"Marco, ti riconosci nell’obiettivo a te assegnato di migliorare la tua capacità di delega?"
"Sì, cerco fin troppo il consenso. Provo una sorta di sofferenza nel dire che cosa fare a chi. Mi sento troppo partecipe, mi identifico. Alla fine chiedo quello che voglio chiedere, ma non direttamente. Cerco di convincere l’altro a fare il compito che gli sto assegnando. Eppure non mi va, sia perché vado sotto pressione, sia perché è uno spreco di energia e di tempo. Eppoi anche perché l’efficacia è ridotta: il messaggio che faccio passare è che se ne può discutere, quando invece non è sempre vero. E quindi alle volte mi ritrovo a fare io cose che dovrebbero fare gli altri, semplicemente per allentare la tensione."
Iniziammo allora una conversazione che si approfondiva sempre più, fatta di mie domande e sue risposte, che erano uniche perché davano significato al suo proprio modo di vivere l’esperienza.
Alcune volte le risposte sono dettate dal buon senso o da significati universalmente condivisi, ed allora le sue risposte sarebbero potute suonare identiche alle risposte di altre persone. Ma non è questo il punto: il punto è setacciare il comportamento azione per azione, in modo da intercettare dove esattamente lavorare e produrre il cambiamento desiderato.
...Perché stava facendo una sessione di coaching offerto dall’azienda?
Così molte volte inizia un percorso di coaching: il coach ed il coachee si devono sintonizzare abbastanza velocemente per lavorare insieme. Il coach deve quindi far precedere l’inizio della sessione vera e propria da una introduzione che non sia troppo veloce per chi sta cercando di capirci qualcosa; che dia quindi delle informazioni, ma che non sia troppo lunga perché’ sa già che alla fine della prima sessione il suo interlocutore avrà un’idea molto più chiara di quello che gli sta accadendo senza il bisogno di tante spiegazioni.
La prima parte della sessione fu spesa nel chiarire i punti principali: innanzitutto che il coaching è un’opportunità e non un esame di riparazione: all’azienda costa soldi e non avrebbe senso spenderli per qualcuno su cui non vuol puntare a far crescere. Poi nell’imbastire un’idea di quello che sarebbe accaduto successivamente: la condivisione dell’obiettivo individuato con il responsabile e il riconoscimento, o meno, dello stesso da parte del coachee, seguito dall’inizio del lavoro insieme. Infine nella descrizione del coaching nella sua sostanzialità fatta di domande e sintesi da parte del coach, e del beneficio del coachee in una chiarezza di idee e successivamente strategie da seguire.
Marco ascoltava e non faceva molte domande. Aveva avuto parecchie esperienze nella vita, ma di questa non sapeva proprio che cosa pensare. Il coach gli aveva fatto firmare un accordo di coaching, in cui si individuavano i termini temporali del percorso e il numero di sessioni, si sottolineava la riservatezza, si indicava il potenziamento delle risorse della persona attraverso raggiungimento degli obiettivi. Bello. Dov’era la fregatura?
Nessuna fregatura, si tratta soltanto di ragionare con chiarezza sugli argomenti proposti. Le domande del coach aiutano, alle volte stimolano, a far chiarezza semplicemente perché nella risposta si deve far capire all’altro che cosa si intende. Eppoi perché propongono, provocano, spingono a nuove riflessioni, in una progressione di pensiero che fa giungere a conclusioni a cui non si aveva mai pensato.
"Marco, ti riconosci nell’obiettivo a te assegnato di migliorare la tua capacità di delega?"
"Sì, cerco fin troppo il consenso. Provo una sorta di sofferenza nel dire che cosa fare a chi. Mi sento troppo partecipe, mi identifico. Alla fine chiedo quello che voglio chiedere, ma non direttamente. Cerco di convincere l’altro a fare il compito che gli sto assegnando. Eppure non mi va, sia perché vado sotto pressione, sia perché è uno spreco di energia e di tempo. Eppoi anche perché l’efficacia è ridotta: il messaggio che faccio passare è che se ne può discutere, quando invece non è sempre vero. E quindi alle volte mi ritrovo a fare io cose che dovrebbero fare gli altri, semplicemente per allentare la tensione."
Iniziammo allora una conversazione che si approfondiva sempre più, fatta di mie domande e sue risposte, che erano uniche perché davano significato al suo proprio modo di vivere l’esperienza.
Alcune volte le risposte sono dettate dal buon senso o da significati universalmente condivisi, ed allora le sue risposte sarebbero potute suonare identiche alle risposte di altre persone. Ma non è questo il punto: il punto è setacciare il comportamento azione per azione, in modo da intercettare dove esattamente lavorare e produrre il cambiamento desiderato.
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