Diritto all’interprete per l'imputato straniero
Il termometro dell’auto segna 35 gradi e sono in procinto di entrare in un istituto carcerario.
Certo non è San Quentin, o Sing Sing, ma è sempre un carcere.
Il mio cliente è un giovane pakistano accusato di tentato omicidio verso un suo connazionale. Apparentemente mite, mi riferiscono essere analfabeta.
Le pesanti porte si aprono e poi si chiudono rumorosamente dietro di me.
Mi affretto ad attraversare il lungo cortile levandomi la giacca. Alzo lo sguardo verso le celle le cui finestre sono oscurate alla meglio con una coperta o un lenzuolo. Rifletto sulle condizioni dei detenuti non certo per la temperatura.
Giunto al piano in attesa di colloquio, confido che il cliente conosca almeno la lingua inglese. Mi seggo sulla sedia presente in cella e osservo le spoglie mura alla ricerca di non so cosa.
L’aria condizionata è assente, ma fortunatamente dalla finestra sbarrata entra un po’ di vento.
Pochi minuti dopo il mio assistito viene accompagnato dalla guardia. Lo segue un altro detenuto che per “gentile concessione” dell’agente penitenziario, si presta a tradurre in “punjabi”.
Fortunatamente durante il colloquio, grazie a questi, comprendo come si sono svolti i fatti.
Il cliente reclama la sua innocenza. Le ferite riscontrate sulla parte offesa sono state auto inferte in segno di protesta facendo poi ricadere la colpa sul mio assistito.
Torno in studio e predispongo l’istanza di riesame per tentare la scarcerazione, ma ho pochi elementi e questa si presenta alquanto scarna.
Ho necessità, quindi, di avere altre informazioni e di svolgere indagini investigative.
Mi determino, quindi, a tornare in carcere, adoperandomi questa volta ad ottenere formale autorizzazione dal Giudice per farmi assistere da un interprete. Nell’istanza devo indicare un nominativo. Faccio una ricerca e ne rinvengo solo due.
Mi dicono che uno di questi è in partenza e l’altro non può darmi la sua disponibilità; nel dubbio, allora, aggiungo il nome del detenuto della scorsa volta che ha svolto egregiamente il servizio di interprete.
Ma non ho molto tempo e anche senza l’autorizzazione, mi reco in carcere. D’altro canto, penso, devo solo raccogliere una firma per la procura speciale e indicare lo spazio ove il cliente dovrà apporla. Sono certo che questi si fiderà di me e firmerà tranquillamente.
Come la scorsa volta, fortunatamente, il cliente è seguito dal connazionale e, dopo breve traduzione, appone la sua firma senza riserve.
Ma quasi al termine del colloquio, irrompe nella cella un agente penitenziario che ammonisce me e il detenuto “interprete” perché non autorizzato.
Spiego che gli interpreti non sono facilmente reperibili e che a breve avrò un’udienza a Roma... mi giustifico nel mentre intervengono più agenti e i toni si infervorano.
Invero, l’agente ha ragione e, pertanto, non scendo in polemica; tra me e me ne contesto piuttosto i modi, e più espressamente li manifesta il detenuto “interprete”, alto 1,80 che si impone con la sua presenza anche in virtù dei cinque anni di allenamento con i pesi in carcere...
Successivamente mi interrogo sui diritti del detenuto straniero per poter esercitare un completo diritto di difesa.
Il caso è fonte di studio, anche perché oggi il giudice, sulla richiesta di “utilizzare” quel detenuto quale interprete, mi ha notificato il “non luogo a provvedere” in quanto “non esterno”.
Sulla figura dell’interprete soffermo l’attenzione sugli artt. 104 e 143 c.p.p. e sugli artt. 67 e 68 disp. att. c.p.p., così come modificati dal D.lgs., 4 marzo 2014, n. 32 recependo gli impulsi di derivazione europea.
All’art. 143 c.p.p. alla rubrica “nomina dell’interprete” la modifica legislativa ha sostituito il “diritto all’interprete” per l’imputato che deve non solo comprendere l’accusa formulata nei suoi confronti, ma anche il compimento dei singoli atti, oltre lo svolgimento delle udienze.
Da un punto di vista pratico, tuttavia, il novellato articolo non mi sembra produrre i risultati sperati, perché se vi è carenza di interpreti, o meglio ancora di mediatori, quel diritto viene ampiamente limitato già dalle prime battute difensive.
Il problema non è isolato a tale istituto, ma in tutta Italia e non certo mi consolo se in USA le cose siano peggiori in ragione delle numerose etnie.
Leggo che qui gli interpreti risultano disponibili per lo più telefonicamente anziché personalmente, e si utilizzano audizioni in remoto che tuttavia presentano grandi problematiche.
Inutile discutere sulla carenza delle risorse e degli strumenti che mancano.
Inutile fare il quadro di bilancio e attendere modifiche e leggi ulteriori.
I decreti legislativi emanati hanno reso operativa solo una minima parte del lavoro delle Commissioni Ministeriali chiamate a indicare percorsi di modernizzazione del sistema detentivo.
Mi serve un riscontro immediato, perché in mancanza di interpreti non riuscirò a compiere adeguatamente il mio dovere.
Auspico una trasformazione costituzionalmente orientata. La gravità della pena non può pregiudicare il diritto alla vita e la dignità del detenuto e l’assistenza linguistica va garantita «in concreto» e «senza indugio».
Posso adesso protestare. Eccepire nullità degli atti per irreperibilità dell’interprete e sperare che vengano accolte.
Ma parliamo di stranieri e tutto è diverso. Il giudice riconoscerà il legittimo impedimento o la causa di forza maggiore cui l’irreperibilità dell’interprete può essere ricondotta.
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