Diritto di critica e diffamazione: incerto confine


Quando è diritto del privato criticare l'operato della PA e quando, invece, egli criticando incorre in responsabilità penale per diffamazione?
Diritto di critica e diffamazione: incerto confine
Quante volte, nella vita di tutti i giorni, sentiamo criticare il nostro operato o quello di terze persone? Che sia un collega, un funzionario o un politico, nessuno sfugge agli strali della critica.
Ma quando questa è legittima e quando invece integra un reato?
Per dare una risposta a questa domanda occorre, anzitutto, chiarire che il diritto di critica altro non è che una forma di manifestazione del pensiero, in quanto tale tutelata dall’art. 21 Cost., che sancisce il principio, accolto in tutti gli ordinamenti liberali, secondo cui "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione". Dunque, in quanto esercizio di un diritto, esso dovrebbe escludere ogni punibilità.
Tuttavia il nostro codice penale prevede all’art. 595 il delitto di diffamazione, che è integrato dalla condotta di chi, comunicando con più persone, offende la reputazione di un soggetto non presente. Tale reato è di competenza del Giudice di Pace, il quale può applicare la pena pecuniaria della multa da 258 a 2582 €, ovvero la permanenza domiciliare o l’obbligo di svolgere lavori di pubblica utilità per un periodo determinato.
Tuttavia, se il reato è commesso col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (tra cui la giurisprudenza ricomprende i social network) o con atto pubblico è prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a € 516 e il delitto diviene di competenza del Tribunale.
Il confine tra il delitto di diffamazione ed il diritto di critica è stato dalla dottrina e dalla giurisprudenza così individuato: perché la condotta di un soggetto possa essere ricompresa nel legittimo diritto di critica, e dunque scriminata, occorre anzitutto che i fatti riportati corrispondano al vero, quantomeno nel loro nucleo fondamentale.
In secondo luogo, è richiesta la pertinenza del fatto narrato al potenziale interesse dell’opinione pubblica: ciò significa che sono sempre illeciti gli attacchi personali diretti a colpire sul piano personale la figura morale del soggetto criticato, senza alcuna finalità di pubblico interesse.
Da ultimo, viene richiesto il requisito della continenza: i toni della critica, anche aspra, non possono mai trascendere in espressioni inutilmente volgari, umilianti o pretestuosamente denigratorie.
Nella pratica, tuttavia, spesso il confine è molto meno netto di quello che può sembrare.
In una recentissima sentenza, la n. 43139 del 29/08/2017, la Cassazione si è trovata a dover applicare questi principi nel caso di un imputato, già condannato tanto in primo quanto in secondo grado per il reato di diffamazione aggravata per aver inviato ad un sindaco e alla Corte dei Conti una lettera ritenuta offensiva in cui veniva criticato l’operato di un dirigente comunale, accusato di aver ostacolato in maniera illecita l'adozione di una pratica richiesta dal privato.
Nel dettaglio, il funzionario veniva accusato di aver disposto la sospensione del procedimento amministrativo - peraltro non di sua competenza - col pretesto di verificarne la regolarità, nonostante il provvedimento fosse già stato approvato dalla giunta comunale. Successivamente lo stesso dirigente aveva poi dichiarato di voler astenersi dall’occuparsene, causando il definitivo blocco del procedimento.
Il privato, sentendosi ingiustamente danneggiato, aveva quindi denunciato la condotta del funzionario con una missiva diretta sia al sindaco che alla Corte dei Conti, ritenendo di essere vittima di un vero e proprio abuso.
La Cassazione, quindi, è passata ad analizzare il contenuto della denuncia, ritenendo, diversamente dai giudici di merito, che non si fosse superato del limite del corretto esercizio del diritto di critica: anzitutto, i fatti narrati erano veri, l’argomentazione era del tutto pertinente, essendovi un evidente interesse della collettività a conoscere della condotta della P.A., ed il linguaggio utilizzato era contenuto, oltre che diretto agli organi chiamati a vigilare sull'operato del dipendente comunale.
Ma la Cassazione compie un passo ulteriore molto interessante: richiamandosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, i giudici di piazza Cavour ribadiscono che costituisce un vero e proprio diritto di tutti i cittadini quello di segnalare liberamente alle autorità competenti i comportamenti dei funzionari pubblici che essi ritengano irregolari o illegali.
Dunque, inevitabile, l’annullamento della condanna dell’imputato per aver esercitato il diritto di critica.

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di Avv. Patrizio Paolo Palermo

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