Divorzio: archiviato il tenore di vita
La prima sezione civile della Cassazione ridisegna il matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità e in quanto tale dissolubile
Con la sentenza del 10 maggio 2017 n. 11504, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione compie una rivoluzione copernicana in materia di assegno di divorzio, ridisegnando, in confessato contrasto con il tradizionale orientamento prevalente, le condizioni in presenza della quali, il contributo al mantenimento del coniuge più debole, va riconosciuto.
L'articolo 5, comma sesto della legge 898/90 (diritto all'assegno di divorzio) stabilisce che il Tribunale disponga l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno, quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
E' sin troppo chiaro che, in assenza di qualsivoglia determinazione legislativa, la valutazione su ciò che debba intendersi come mezzo di sostentamento adeguato alle esigenze del coniuge, è criterio rimesso alla discrezionalità giudiziale.
E' assolutamente noto che prima del recente arresto della prima sezione civile, le Sezioni Unite della Cassazione, nel pur lontano novembre 1990, avevano parametrato l'adeguatezza o l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente, al tenore di vita analogo, avuto in costanza di matrimonio, o (sul tenore) che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio.
Doveva cioè ritenersi percettore di mezzi adeguati propri e dunque non destinatario di alcun contributo a carico dell'ex coniuge, solo colui o colei che poteva vantare una disponibilità di mezzi, quantomeno approssimativamente paragonabile a quella goduta in costanza di matrimonio. Ancora prima della recente pronuncia di maggio 2017, il criterio espresso dalle sezioni unite del 90, era stato volutamente temperato dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 11 febbraio 2015, evidentemente pressata dal pur pregevole sentire collettivo, volto ad impedire che l'interpretazione prevalente dell'art. 5 della L. 989/90, conducesse alla creazione di oziose rendite, parassitarie e perpetue, e a sancire una sorta di eterna sopravvivenza del vincolo coniugale. "L'assegno divorzile non deve garantire il medesimo tenore di vita coniugale, ma quest'ultimo parametro rileva solo per determinare il tetto massimo in astratto della prestazione assistenziale". Con tale precisazione, la Corte Costituzionale pareva rimettere la valutazione del caso concreto all'opera di attenta ponderazione del Giudice, l'unico capace di contenere che il principio del tenore di vita - pur ancora incluso nell'interpretazione prevalente dell'art. 5 L. 898/90 - conducesse a quelle pratiche distorsioni, spesso invalse nelle aule dei tribunali. In tale contesto, interviene appunto, la decisione del 10 maggio 2017.
Così testualmente si legge in un importante e chiarificatore passaggio del pronunciamento "a distanza di quasi ventisette anni, il collegio ritiene tale orientamento (quello delle sezioni unite) per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall'osservanza dell'art. 374, terzo comma. c.p.c.
Le ragioni in forza delle quali il suddetto parametro andrebbe escluso sono le seguenti: 1) se applicato già in fase di valutazione dei mezzi adeguati (an debeatur), il criterio del tenore di vita implicherebbe la perdurante efficacia di un vincolo (quello matrimoniale) che il divorzio invece elide (a differenza della separazione); 2) se il tenore di vita coniugale venisse incluso nel giudizio sull'an debeatur, l'assegno verrebbe riconosciuto non già al singolo come persona (effetto assistenziale), ma come parte di un rapporto matrimoniale, nella realtà già estinto; 3) l'eventuale giudizio sul contributo economico e personale offerto dai coniugi durante il matrimonio è imposto solo per la quantificazione dell'assegno e non già per decidere del suo necessario o meno riconoscimento; 4) il riconoscimento del tenore di vita determina la commistione tra le due fasi (an debeatur e quantum debeatur); 5) il matrimonio è oramai socialmente riconosciuto come un atto di liberalità e di autoresposabilità e considerarlo una "sistemazione definitiva" è visione atavica, largamente superata; 6) l'adeguatezza dei mezzi deve essere parametrata alle condizioni del soggetto richiedente e non già a quelle dell'obbligato.
Il criterio suggerito dalla Corte per valutare o per negare il riconoscimento dell'assegno è quello dell'indipendenza economica del soggetto richiedente.
Le perplessità che si originano dalla pronuncia delle prima sezione civile sono numerose. Quella che a giudizio di chi scrive desta maggiore preoccupazione è che il caso sottoposto all'attenzione della prima sezione è assolutamente distante, per l'eccezionalità dei redditi di cui si discute, dall'ordinario e comune contenzioso. La automatica estensione dei principi espressi in sentenza al divorzio più ordinariamente ridimensionato, potrebbe condurre ad inique e preoccupanti sperequazioni.
L'articolo 5, comma sesto della legge 898/90 (diritto all'assegno di divorzio) stabilisce che il Tribunale disponga l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno, quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
E' sin troppo chiaro che, in assenza di qualsivoglia determinazione legislativa, la valutazione su ciò che debba intendersi come mezzo di sostentamento adeguato alle esigenze del coniuge, è criterio rimesso alla discrezionalità giudiziale.
E' assolutamente noto che prima del recente arresto della prima sezione civile, le Sezioni Unite della Cassazione, nel pur lontano novembre 1990, avevano parametrato l'adeguatezza o l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente, al tenore di vita analogo, avuto in costanza di matrimonio, o (sul tenore) che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio.
Doveva cioè ritenersi percettore di mezzi adeguati propri e dunque non destinatario di alcun contributo a carico dell'ex coniuge, solo colui o colei che poteva vantare una disponibilità di mezzi, quantomeno approssimativamente paragonabile a quella goduta in costanza di matrimonio. Ancora prima della recente pronuncia di maggio 2017, il criterio espresso dalle sezioni unite del 90, era stato volutamente temperato dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 11 febbraio 2015, evidentemente pressata dal pur pregevole sentire collettivo, volto ad impedire che l'interpretazione prevalente dell'art. 5 della L. 989/90, conducesse alla creazione di oziose rendite, parassitarie e perpetue, e a sancire una sorta di eterna sopravvivenza del vincolo coniugale. "L'assegno divorzile non deve garantire il medesimo tenore di vita coniugale, ma quest'ultimo parametro rileva solo per determinare il tetto massimo in astratto della prestazione assistenziale". Con tale precisazione, la Corte Costituzionale pareva rimettere la valutazione del caso concreto all'opera di attenta ponderazione del Giudice, l'unico capace di contenere che il principio del tenore di vita - pur ancora incluso nell'interpretazione prevalente dell'art. 5 L. 898/90 - conducesse a quelle pratiche distorsioni, spesso invalse nelle aule dei tribunali. In tale contesto, interviene appunto, la decisione del 10 maggio 2017.
Così testualmente si legge in un importante e chiarificatore passaggio del pronunciamento "a distanza di quasi ventisette anni, il collegio ritiene tale orientamento (quello delle sezioni unite) per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall'osservanza dell'art. 374, terzo comma. c.p.c.
Le ragioni in forza delle quali il suddetto parametro andrebbe escluso sono le seguenti: 1) se applicato già in fase di valutazione dei mezzi adeguati (an debeatur), il criterio del tenore di vita implicherebbe la perdurante efficacia di un vincolo (quello matrimoniale) che il divorzio invece elide (a differenza della separazione); 2) se il tenore di vita coniugale venisse incluso nel giudizio sull'an debeatur, l'assegno verrebbe riconosciuto non già al singolo come persona (effetto assistenziale), ma come parte di un rapporto matrimoniale, nella realtà già estinto; 3) l'eventuale giudizio sul contributo economico e personale offerto dai coniugi durante il matrimonio è imposto solo per la quantificazione dell'assegno e non già per decidere del suo necessario o meno riconoscimento; 4) il riconoscimento del tenore di vita determina la commistione tra le due fasi (an debeatur e quantum debeatur); 5) il matrimonio è oramai socialmente riconosciuto come un atto di liberalità e di autoresposabilità e considerarlo una "sistemazione definitiva" è visione atavica, largamente superata; 6) l'adeguatezza dei mezzi deve essere parametrata alle condizioni del soggetto richiedente e non già a quelle dell'obbligato.
Il criterio suggerito dalla Corte per valutare o per negare il riconoscimento dell'assegno è quello dell'indipendenza economica del soggetto richiedente.
Le perplessità che si originano dalla pronuncia delle prima sezione civile sono numerose. Quella che a giudizio di chi scrive desta maggiore preoccupazione è che il caso sottoposto all'attenzione della prima sezione è assolutamente distante, per l'eccezionalità dei redditi di cui si discute, dall'ordinario e comune contenzioso. La automatica estensione dei principi espressi in sentenza al divorzio più ordinariamente ridimensionato, potrebbe condurre ad inique e preoccupanti sperequazioni.
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