Esiste il momento giusto per disinvestire?

Nei mercati finanziari capire quando vendere non è meno importante di capire quando comprare.
Dipendenti bancari e promotori finanziari, salvo rarissimi casi, non prendono mai in considerazione l’ipotesi di disinvestire affermando che se i mercati vanno bene, rimanere investiti è un’opportunità di crescita, per converso, se le cose vanno male è ancora di più il momento di investire perché si compra il 3x2.
Eppure, conoscere quando è il momento di vendere è una componente fondamentale dell’investimento.
Vendere del resto è l’altra faccia della medaglia dell’investimento: se non vendiamo bene non è possibile fare un buon investimento. Ma, cosa si intende con l’espressione “vendere bene?”
Dovremmo a questo punto fare un passo indietro e domandarsi “perché si è investito?” e da questo chiedersi: “qual è il momento più opportuno per vendere uno strumento finanziario?”
Purtroppo, anche quest’ultima domanda non ha una risposta valida in assoluto e definitiva a meno che non sia stata data una risposta particolareggiata alla precedente domanda: “perché si è investito?”
Ho scritto “particolareggiata” perché la risposta non può ridursi a “investo per guadagnare” perché guadagnare e basta significa poco e nulla: guadagnare quanto? Per quale obiettivo? Per quali motivazioni? Con quale rischio e orizzonte temporale? E altre motivazioni … rappresentano ciò che intendo con "particolareggiata".
Dunque, l’utilità della domanda relativa al momento più opportuno per vendere deve riguardare le ragioni per le quali il denaro è utile nella nostra vita.
Il denaro è un mezzo, non un fine.
Fatta questa premessa, in questo articolo desidero fare alcune considerazioni generali riguardo alla fase della vendita degli strumenti finanziari. Mi riferisco in particolare alla fiscalità, ai costi e alla qualità della gestione dell’investimento.
Considerare l’aspetto cruciale nella vendita di uno strumento finanziario quello della fiscalità è indice di attenzione in quello che si fa: pagare il 26% sulla vendita di uno strumento perché si desidera incassare un guadagno e poi aspettare un’altra opportunità d’investimento analoga a quella appena venduta è un’idea poco intelligente perché soggetta ad un costo rilevante derivante dalla tassazione su qualcosa molto aleatorio.
Sì, l’impatto della fiscalità sugli investimenti finanziari è troppo spesso sottovalutato.
Nel lungo termine, ovvero in uno spazio di tempo decennale, per effetto della capitalizzazione composta, trascurare la fiscalità può significare dimezzare il capitale che avremmo potuto avere se non avessimo fatto vendite sbagliate mosse soltanto da stati emotivi pericolosi che rendono gli investitori incapaci di comprendere dove stanno e come si ottengono effettivi guadagni.
Chiarito l’aspetto fiscale, è giunto il momento di comprendere quali siano le ragioni per le quali vogliamo vendere. Ragioni che dovrebbero essere, a rigore, coerenti con le ragioni per le quali avevamo acquistato.
In altri termini, non dobbiamo commettere l’errore assai frequente di trasformare un investimento di lungo termine in una speculazione di breve termine perché il titolo “è salito” e neppure dovremmo fare il contrario, ovvero trasformare una speculazione di breve termine andata male in un investimento di lungo termine perché non ci piace vendere in perdita o perché “è sceso così tanto che non ha senso vendere”.
La vendita è la conclusione di un processo e non dovrebbe mai essere il frutto di qualcosa di improvvisato: non si vende perché il controvalore è positivo. Semmai, si può vendere perché il controvalore ha raggiunto il livello che ci si era prefissati. Quanto appena scritto, sembra un gioco di parole. C’è una grande differenza tra il vendere ad un determinato prezzo e il vendere perché il prezzo è alto. Si deve avere anche progettato cosa fare con il netto ricavo. La vendita deve essere parte di un piano, di un progetto.
C’è poi un caso diverso, che bisogna considerare, e cioè quando ci si rende conto di aver fatto un errore nella scelta di investimento. Errare è umano non drammatizzare, errare serve ad imparare e a correggere i successivi step.
Gli errori di scelta degli strumenti finanziari si possono dividere in due grandi famiglie: errori che riguardano i singoli titoli e errori che riguardano i prodotti d’investimento, tipicamente polizze o fondi assicurativi.
Nel caso di singoli titoli, ci possiamo rendere conto che l’azienda emittente non era quella che avevamo valutato, o perché abbiamo fatto errori di valutazione iniziali o perché le cose hanno preso successivamente una piega diversa (errori del management, evoluzioni tecnologiche o di mercato, cambiamenti normativi, ecc.).
In entrambi i casi, quando ci rendiamo conto di aver fatto un errore, l’unica cosa saggia da fare è vendere.
È sbagliato temere di vendere in perdita sia nel caso del singolo titolo sia nel caso del fondo.
Nel caso del fondo, vendere per comprare un fondo meno costoso non significa vendere in perdita.
L’investitore, attraverso il fondo, investe in un determinato mercato.
Se sostituisce il fondo non sta smettendo di investire in questo mercato, lo sta facendo solo in un modo più efficiente.
Nel caso di singoli titoli, se perdiamo fiducia nel progetto aziendale è necessario vendere, costi quel che costi.
La ragione naturale per la quale si vende un investimento finanziario è quella di spendere soldi.
È banale, ma è utile ricordarlo. Il momento migliore per investire è quando abbiamo denaro in eccesso, il momento migliore per disinvestire è quando dobbiamo spenderlo ma attenzione a non bruciare tutto il patrimonio!
Ovviamente, non si intendono qui piccole spese, ma uscite importanti (quali, acquisti di beni immobili o auto, barche, viaggi importanti, ecc.). Spese che, generalmente, si possono programmare.
Perché il patrimonio accumulato deve consentirci anche di mantenere il tenore di vita nella fase post lavorativa.
Una corretta programmazione delle uscite permette anche di sfruttare le oscillazioni dei mercati per vendere con opportuno tempismo. Non è certamente la parte principale del progetto, ma sapendo che comunque si dovrà vendere per avere la liquidità ad una data certa, ha senso cercare di rendere la vendita il più efficiente possibile e non dettata da emozioni negative.
Dunque, è evidente l’importanza di un obiettivo concreto che consente di rendere chiaro il concetto del “momento giusto per vendere”.
Troppi i casi in cui gli investitori non hanno reali spese da fare, quindi, la valutazione della vendita è legata al fatto che si pensa che il prezzo sia ormai “troppo alto” e dovrà scendere, ecco qui il “magico mondo delle previsioni finanziarie” ahimè tanto pericolose quanto impossibili nella loro certezza!
Tolto il caso in cui si vende per spendere, l’unico motivo razionale della vendita è dato dall’opportunità di ricavare un maggiore guadagno dalla vendita di uno diverso strumento finanziario.
Non dimenticare che, in quanto esseri umani, non siamo primariamente razionali, bensì siamo prevalentemente esseri guidati dalle emozioni: entrano in gioco la paura di perdere quello che consideriamo acquisito ed il rimpianto di non aver guadagnato ciò che avremmo potuto guadagnare.
In base alla mia esperienza professionale di oltre dieci anni a contatto quotidiano con risparmiatori ed investitori, indipendentemente da quello che l’investitore dice al consulente o a sé stesso, se non vi sono specifici obiettivi d’investimento, il vero obiettivo è un mix (diverso da persona a persona in base alle proprie caratteristiche) di tre fattori:
1) minimizzare i rimpianti;
2) conservare il valore del capitale nel tempo;
3) massimizzare le gratificazioni psicologiche derivanti dall’aver guadagnato a patto di non intaccare i primi due punti.
Nell’ottica di vendere allo scopo di migliorare il rapporto rischio/rendimento del proprio portafoglio, ci sono alcuni fattori che è importante valutare.
La premessa fondamentale è sempre quella dell’impossibilità di realizzare, con una ragionevole costanza, previsioni affidabili.
Neppure per un professionista del settore è sempre facile valutare se i prezzi, in un dato momento, sono “eccessivi” in un senso o nel senso opposto oppure “normali” ed è un grave errore pensare che ad un eccesso di prezzo consegua necessariamente in tempi prevedibili una correzione in senso opposto, non è automatico.
Tenere ben presente, invece, che tutti gli eccessi, prima o poi, vengono riequilibrati, ma nessuno può prevedere come e quando il nuovo equilibrio si realizzerà.
Un investitore adulto deve accettare che gli eccessi esistono ed è ragionevole tenerne conto, ma al tempo stesso che l’incertezza e il rischio è presente in ogni aspetto della vita quotidiana e la finanza non ne è purtroppo esente.
Questo il motivo per cui le decisioni d’investimento finanziario devono essere guidate da una combinazione di aspetti strategici e tattici. Le scelte strategiche devono nascere dal “perché investi?”, le scelte tattiche devono sempre essere secondarie e prevedere la possibilità di sbagliare senza compromettere gli obiettivi strategici.
Vendere con l’obiettivo di massimizzare i rendimenti è un aspetto tattico che può essere inserito all’interno di un progetto d’investimento prevalentemente allo scopo di rendere psicologicamente più gratificante o più sopportabile lo svolgimento del progetto di lungo termine.
Un efficiente progetto d’investimento è la composizione di diverse strategie d’investimento.
Una strategia d’investimento è un insieme di regole che definiscono proprio cosa e come comprare e vendere.
Si possono concepire e realizzare diverse tipologie e combinazioni di strategie d’investimento più o meno articolate ma la semplicità in finanza paga sempre, quando vi sono le condizioni; alcune strategie potrebbero lavorare sul concetto di investire e disinvestire ad intervalli prestabiliti, però, deve essere chiaro che nessuno può garantire che queste strategie siano in grado di massimizzare il rapporto rischio/rendimento. Certo, se sono costruite in modo efficiente possono rendere il progetto d’investimento psicologicamente sostenibile.
Da questo punto di vista, uno degli elementi più importanti di un piano d’investimento è legato al tentativo di ridurre i crolli dei mercati azionari attraverso un’opportuna e corretta diversificazione. Abbiamo ripetuto ormai fino allo sfinimento che prevedere i movimenti dei mercati è impossibile. Al tempo stesso, sappiamo che i grandi crolli dei mercati azionari sono eventi relativamente rari e con effetti estremamente rilevanti sui rendimenti di lungo periodo. Raramente si indovina la combinazione di indicatori macroeconomici e finanziari per la quale si può ipotizzare (senza, però, alcuna certezza) che potrebbe realizzarsi un crollo generalizzato dei mercati azionari. Può essere ragionevole, anche razionalmente, accettare dei costi per tentare di evitare o almeno di ridurre questi crolli. Questo rende psicologicamente più sostenibile un piano d’investimento che magari contiene una componente azionaria più elevata di quello che l’investitore tollererebbe se non vi fosse questo meccanismo di protezione.
Vendere in perdita, dunque, non è sbagliato in assoluto: deve essere parte di una strategia basata sull’efficientamento del proprio patrimonio.
Concludendo, domandarsi quando è il momento giusto per vendere significa non aver capito il proprio progetto d’investimento come credere che in caso di necessità di fare spese importanti è bene disinvestire ciò che sta dando utili e non toccare ciò che sta perdendo è un grave errore di comprensione dell’utilità dell’investimento.
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