Facebook, il diritto al dissenso


Chi protesta pubblicamente non può essere punito per le idee che esprime, ma per non aver rispettato le norme che regolamentano i modi attraverso cui protestare
Facebook, il diritto al dissenso

E’ di tangibile evidenza come oggi, qualunque persona, possa esprimersi nel Web liberamente.

Talvolta si risponde a getto, con comunicazione contratta; con emoticons, in maiuscolo, con acronimi, con un linguaggio moderno.

Si risponde alla provocazione in una infinita replica.

E’ d’altro canto una di manifestazione della libertà di pensiero, garantita costituzionalmente (art. 21), diritto che tuttavia non va indenne dai limiti segnati da quei principi che garantiscono parimenti la pari dignità di tutti i cittadini (art. 3).

La materia di chi ne travalica i confini è certamente non nuova agli operatori di diritto.

Il mio caso si differenzia da quella frequente ipotesi delittuosa tipizzata nel reato di diffamazione aggravata.

In Italia il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero si differenzia dalla normativa statunitense che riceve la protezione del primo emendamento anche quando ciò risulti fortemente problematico, ovvero quando il diritto di critica sia stato espresso in maniera verbalmente aggressiva.

In un post concernente un fatto di cronaca, si commenta la morte per annegamento di un ivoriano.

L’infelice affermazione utilizzata di “uno di meno” da parte di un membro, fornisce il destro alla community in una invettiva generale contro gli stranieri presenti un po’ ovunque nel nostro territorio.

Le rimostranze muovono da persone non certamente agiate, le quali nella persistente crisi economica trovano la scusa per ogni cosa. Sono populisti arrabbiati, delusi, noiosi, ma non credo razzisti.

Eppure il loro commento su quel portale è stato considerato una incitazione al razzismo con tutte le conseguenze del caso.

Più soggetti, infatti, vengono tratti a giudizio con l’imputazione di cui all’art. 1 lett. a) legge n. 205/1993 n. 205/1993) che, nota come Legge Mancino, ha ratificato e ha dato esecuzione alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione raziale conclusa a New York il 21.12.1965.

Negli Stati Uniti sarebbe stato senz’altro un “dissenso rispettato”.

Ho nutrito riserve se accettare quell’incarico, ritenendo personalmente condannevole qualsiasi replica, sia pur essa superficiale, fraintesa, mossa dall’ira di quel lavoratore indefesso. Sono d’altronde irrilevanti le ragioni del gesto, basandosi l’incriminazione sulle modalità di commissione consapevolmente basate sul disprezzo raziale.

Partendo dallo studio di quella norma incriminata, cerco di coglierne lo spirito.

Quei commenti contengono effettivamente i segni di una finalità di discriminazione e di odio? Può un precedente giudiziale, sia pur datato nel tempo, fondare un esempio se la pericolosità sociale dell’individuo unitamente alla sussistenza della violazione di tale norma?

L’evoluzione del quadro legislativo nazionale vede modificata l’originale formulazione. Anche alcuni aspetti terminologici mutano. Il concetto di “diffusione” delle idee razziste viene sostituito con quello di “propaganda” di tali idee, il concetto di “incitamento” viene a modificarsi con quello di “istigazione”.

Per alcuni il senso non cambia, anche se in alcune pronunce di merito si afferma che il sostantivo “propaganda” evocherebbe qualcosa di più ampio del “diffondere” e, soprattutto, presupporrebbe organizzazione di mezzi e molteplicità di interventi.

“Propagandare” un’idea significa divulgarla, al punto da condizionare o influenzare il comportamento e la psicologia di un vasto pubblico, in modo da raccogliere adesioni attorno ad essa.

Il contesto in cui si colloca il commento e il concreto pericolo di quel comportamento discriminatorio non mi sembrano tuttavia atteggiarsi al mio caso.

Il post non è stato intenzionalmente diretto a suscitare in altri un sentimento di odio o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.

La giurisprudenza esaminata esclude che possa automaticamente ricondursi alla nozione di “odio” ogni e qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, pur se riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità, all’etnia o alla religione.

Così come quanto alla nozione di “discriminazione” – non può essere intesa come riferibile a qualsivoglia condotta contrastante con un ideale di assoluta e perfetta integrazione, non solo nei diritti ma anche nella pratica dei rapporti quotidiani, tra soggetti di diversa razza, etnia, nazionalità o religione – ma deve essere tratta esclusivamente dalla definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione di New York del 7.3.1966 , secondo cui, nel testo italiano, essa “sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica” (Cass., Sez. V, 17 novembre 2005, n. 44295).

Condanno la polemica da bar, lo sproloquio, l’ignoranza sua una tematica così attuale e sempre difficile. Un’ignoranza che nega verità storiche non è mai da giustificare.
Il problema prima che di ordine giuridico si pone quindi come culturale. Ecco allora che deve ragionarsi in termini di condannevole superficialità di questi utenti, a dispetto di quel pericolo concreto richiesto dalla norma e che a tale diffusione corrisponda un’effettiva adesione dei destinatari.

Negli Stati Uniti, di converso, l’offesa perpetrata in segno di odio e disprezzo nei confronti dei neri, sarebbe protetta dal primo emendamento in quanto non si tratterebbe di un insulto diretto a una specifica persona e non ha integrato una vera e propria minaccia.

Chi protesta pubblicamente non può essere punito per le idee che esprime attraverso la protesta, però, può essere punito per non aver rispettato le norme che regolamentano i modi attraverso cui qualunque protesta deve essere posta in essere.

 

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di Avv. Alfredo Perugi

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