Formazione professionale o indottrinamento?
Il diritto alla formazione continua dei lavoratori dipendenti e l'indottrinamento obbligato imposto ai professionisti iscritti negli ordini.
Come noto la formazione professionale è un diritto sancito dalla Costituzione, all'art. 35, comma 2, dove espressamente si afferma che la Repubblica "cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori." Tale diritto rientra nel più generale diritto al lavoro. Sul lavoro si fonda la nostra Repubblica democratica.
Tale diritto al lavoro, per cui ogni individuo ha diritto all'istruzione e all'accesso alla formazione professionale e continua, sancito anche dai trattati internazionali (art. 118, Trattato di Roma, 1957 - art. 14, Carta sociale europea, 1961), non vale però per i lavoratori autonomi iscritti negli ordini. Per costoro il diritto alla formazione professionale dei lavoratori si è trasformato in un vero e proprio obbligo, da rispettare ad ogni costo, pena sanzioni disciplinari, che prevedono anche la sospensione dall'attività lavorativa, comminate da tribunali speciali noti come consigli o collegi di disciplina.
L'obbligo (e non il diritto) per il professionista di seguire corsi di formazione per un certo numero prefissato di ore nel corso dell'anno o del triennio, è stato surrettiziamente introdotto con il D.L. 138/2011, art. 3, comma 5, lett. b), nell'ambito di una sommaria ricognizione degli ordini.
Tuttavia nessuno fino ad oggi pare essersi chiesto se tale obbligo, previsto dal D.L. 138/2011, sia rispettoso dei diritti inalienabili della persona umana, e quindi se, per gli iscritti agli ordini professionali, la formazione rappresenti effettivamente un vero e proprio esercizio del diritto costituzionalmente garantito ovvero una mera imposizione di indottrinamento, per di più con spese a carico dell'indottrinato.
La differenza non è di poco conto, dato che in gioco ci sono appunto i diritti inalienabili della persona umana.
Il dubbio è atroce, perchè se il diritto alla formazione dovesse rivelarsi essere, nella realtà dei fatti, una coercizione all'indottrinamento professionale, risulterebbe palese come il valore del sistema ordinistico sia regredito dal primato delle libertà a sistemi, metodi e regole proprie del sistema corporativo del ventennio. Diciamo che manca solo l'olio di ricino!
Capita sempre più spesso di sentire professionisti iscritti agli Ordini, essere convocati con tanto di liste di proscrizione, per dovere giustificare dinnanzi al Consiglio di disciplina la mancata presenza a convegni o la partecipazione ad eventi c.d. "formativi" che attribuiscono i c.d. "crediti formativi", ma che sarebbe più corretto definire "livelli di indottrinamento".
Su questa specifica questione dell'azione disciplinare e sul legittimo svolgimento della funzione disciplinare, i commercialisti iscritti, che si sentono vessati da questo stato delle cose che incredibilmente si è venuto a creare, debbono assolutamente sapere che le funzioni disciplinari non possono essere svolte da persone diverse da quelle che sono state effettivamente elette al Consiglio nazionale ovvero ai Consigli territoriali o collegi, pena responsabilità anche gravissime.
Difatti esiste copiosa giurisprudenza sull'argomento, sia della Corte Costituzionale (cfr. sent. 284/1986) sia della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ. SU, 12064/2014), che fissa importanti principi giuridici di rango soprattutto costituzionale (cfr. Cost. art. 102, comma 2, ed art. 108, comma 1) quali la riserva assoluta di legge per la formazione delle giurisdizioni speciali.
Ebbene coloro che subiscono le azioni disciplinari dei "consigli di disciplina" debbono apprendere che l'Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (CNDCEC) nel regolamentare l'azione disciplinare ha completamente disattesi i precetti costituzionali che riguardano la formazione dell'organo giudicante (Consigli di disciplina).
In particolare la Cassazione ha di recente ribadito che gli organi di giustizia disciplinare sono giudici speciali istituiti con d.lgs.lgt. del 23 novembre 1944, n. 382, testo tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione. Da ciò, afferma la Corte, ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale dell'Ordine professionale è coperta, anche per quanto attiene al momento della formazione dell'organo giudicante, da riserva assoluta di legge e non può essere affidata alla regolamentazione governativa. Ragione per cui la Corte ha dichiarato che l'art. 3, comma 5, lett. f), D.L. 138/2011 non si applica agli Ordini professionali indicati all'art. 1, d.lgs.lgt. 382/1944.
Tale diritto al lavoro, per cui ogni individuo ha diritto all'istruzione e all'accesso alla formazione professionale e continua, sancito anche dai trattati internazionali (art. 118, Trattato di Roma, 1957 - art. 14, Carta sociale europea, 1961), non vale però per i lavoratori autonomi iscritti negli ordini. Per costoro il diritto alla formazione professionale dei lavoratori si è trasformato in un vero e proprio obbligo, da rispettare ad ogni costo, pena sanzioni disciplinari, che prevedono anche la sospensione dall'attività lavorativa, comminate da tribunali speciali noti come consigli o collegi di disciplina.
L'obbligo (e non il diritto) per il professionista di seguire corsi di formazione per un certo numero prefissato di ore nel corso dell'anno o del triennio, è stato surrettiziamente introdotto con il D.L. 138/2011, art. 3, comma 5, lett. b), nell'ambito di una sommaria ricognizione degli ordini.
Tuttavia nessuno fino ad oggi pare essersi chiesto se tale obbligo, previsto dal D.L. 138/2011, sia rispettoso dei diritti inalienabili della persona umana, e quindi se, per gli iscritti agli ordini professionali, la formazione rappresenti effettivamente un vero e proprio esercizio del diritto costituzionalmente garantito ovvero una mera imposizione di indottrinamento, per di più con spese a carico dell'indottrinato.
La differenza non è di poco conto, dato che in gioco ci sono appunto i diritti inalienabili della persona umana.
Il dubbio è atroce, perchè se il diritto alla formazione dovesse rivelarsi essere, nella realtà dei fatti, una coercizione all'indottrinamento professionale, risulterebbe palese come il valore del sistema ordinistico sia regredito dal primato delle libertà a sistemi, metodi e regole proprie del sistema corporativo del ventennio. Diciamo che manca solo l'olio di ricino!
Capita sempre più spesso di sentire professionisti iscritti agli Ordini, essere convocati con tanto di liste di proscrizione, per dovere giustificare dinnanzi al Consiglio di disciplina la mancata presenza a convegni o la partecipazione ad eventi c.d. "formativi" che attribuiscono i c.d. "crediti formativi", ma che sarebbe più corretto definire "livelli di indottrinamento".
Su questa specifica questione dell'azione disciplinare e sul legittimo svolgimento della funzione disciplinare, i commercialisti iscritti, che si sentono vessati da questo stato delle cose che incredibilmente si è venuto a creare, debbono assolutamente sapere che le funzioni disciplinari non possono essere svolte da persone diverse da quelle che sono state effettivamente elette al Consiglio nazionale ovvero ai Consigli territoriali o collegi, pena responsabilità anche gravissime.
Difatti esiste copiosa giurisprudenza sull'argomento, sia della Corte Costituzionale (cfr. sent. 284/1986) sia della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ. SU, 12064/2014), che fissa importanti principi giuridici di rango soprattutto costituzionale (cfr. Cost. art. 102, comma 2, ed art. 108, comma 1) quali la riserva assoluta di legge per la formazione delle giurisdizioni speciali.
Ebbene coloro che subiscono le azioni disciplinari dei "consigli di disciplina" debbono apprendere che l'Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (CNDCEC) nel regolamentare l'azione disciplinare ha completamente disattesi i precetti costituzionali che riguardano la formazione dell'organo giudicante (Consigli di disciplina).
In particolare la Cassazione ha di recente ribadito che gli organi di giustizia disciplinare sono giudici speciali istituiti con d.lgs.lgt. del 23 novembre 1944, n. 382, testo tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione. Da ciò, afferma la Corte, ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale dell'Ordine professionale è coperta, anche per quanto attiene al momento della formazione dell'organo giudicante, da riserva assoluta di legge e non può essere affidata alla regolamentazione governativa. Ragione per cui la Corte ha dichiarato che l'art. 3, comma 5, lett. f), D.L. 138/2011 non si applica agli Ordini professionali indicati all'art. 1, d.lgs.lgt. 382/1944.
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