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Fuori gioco la ristretta base partecipativa


La Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Basilicata statuisce che la ristrettezza della base societaria non sorregge, da sola, la rettifica
Fuori gioco la ristretta base partecipativa

La Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Basilicata (Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Basilicata, Sent. n. 201/2023 del giorno 17.08.2023; Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Basilicata, Sent. n. 181/2023 del giorno 17.07.2023) ha avuto modo di pronunciarsi sulla presunzione di distribuzione di utili extracontabili in società a ristretta base partecipativa affermando che, a seguito delle modifiche introdotte all’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. 546/1992, le presunzioni in tema di distribuzioni di utili extracontabili (e, quindi di redditi di capitali, imputati per cassa) devono avere ad oggetto elementi oggettivi e certi, oltre ogni ragionevole dubbio, in ordine alla esistenza, in capo alla società “distributrice” di poste finanziarie attive effettivamente attribuite al socio. In mancanza – afferma la Corte di giustizia tributaria di secondo grado per la Basilicata – non potrà dirsi assolto l’onere probatorio dell’Ufficio, non potendo, sotto l’egida della nuova normativa, ammettersi una presunzione di distribuzione fondata solamente sulla qualità di socio nell’ambito della società a ristretta base partecipativa.

La premessa di tale ragionamento fonda sulle modifiche processuali introdotte dalla L. 130/2022.
Difatti, tra le varie modifiche apportate al processo tributario dalla legge n. 130 del 31 agosto 2022, recante “disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario”, di particolare incidenza è l’introduzione del comma 5-bis all’art. 7 del d.lgs. 546/1992. Difatti, a seguito dell’entrata in vigore del comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. 546/1992, si può ritenere che il Legislatore abbia ritenuto di introdurre, nell’ordinamento tributario, una regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova caratterizzata da un connotato di specialità per il processo tributario. I caratteri della specialità sono postulabili in forza del locus materiae, ove il Legislatore ha ritenuto di inserire, nel corpo normativo inteso a disciplinare il processo tributario, una regola di giudizio finalizzata a guidare la decisione in assenza di prova delle posizioni oggetto di controversia. Ulteriormente, i caratteri della specialità sono postulabili in forza dell’oggetto della decisione che, distaccandosi da una dizione ampia e generica relativa al diritto fatto valere in giudizio, trova riferimento soggettivo all’Amministrazione per le violazioni fatte valere con l’atto impugnato.

In tal senso, si deve rilevare come la richiamata novella abbia introdotto, all’interno delle regole che disciplinano il processo tributario, una peculiare regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova, connotata dal carattere della specialità per la materia. Come già sopra analizzato, è possibile ritrarre la specialità della menzionata disciplina in considerazione, dapprima, del locus materiae, in quanto la detta regola è espressamente enunciata nel contesto delle norme che disciplinano il processo tributario. Ulteriormente, la specialità si ritrae, senza possibilità di revoca in dubbio, dalla peculiare connotazione dell’onere della prova che è agganciato ad una precisa indicazione soggettiva, abbandonando il rinvio alla scivolosa dicotomia dei fatti costitutivi e dei fatti impeditivi.

In considerazione di tale premessa, appare coerente con la valutazione sistematica della specialità della novella, la constatazione della inapplicabilità, al processo tributario, dell’art. 2697 c.c. a seguito dell’entrata in vigore (a far data dal 16 settembre 2022) del comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. 546/1992.

Accertata, pertanto, la univoca sussistenza della regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova caratterizzata dalla specialità per il processo tributario, appare necessario porre al vaglio le ricadute soggettive della disciplina introdotta dalla riforma che inducono ad individuare, senza previsioni derogatorie, sempre la parte pubblica come soggetto onerato a fornire la prova in giudizio: non appare, difatti, ritraibile, in forza di un’interpretazione testuale della norma, un differente approdo ermeneutico ove si afferma che “l'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato”

Conseguentemente, ferma la sussistenza dell’onere della prova in capo all’Amministrazione Finanziaria, si deve rilevare come l’ulteriore connotato innovativo di cui all’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. 546/1992 attiene alla introduzione della regola di valutazione delle prove “in dubio pro adsiduo”.

Pertanto, la decisione del giudice, nell’utilizzo delle regole del riparto dell’onere della prova, deve fondarsi sulla valutazione delle prove raccolte durante il processo. Da ciò consegue che, mentre la regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova attiene alla individuazione soggettiva dell’obbligo alla dimostrazione dei fatti, la valutazione delle prove attiene al profilo motivazionale dell’organo giurisdizionale afferente la disamina delle singole prove allegate dalle parti ed afferente l’attribuzione alle stesse di un rilievo ai fini del proprio convincimento.

In tal senso, si può rilevare che, con la riforma di cui alla L. 130/2022, è stato introdotto un criterio di valutazione delle prove, nel processo tributario, retto dal principio “in dubio pro adsiduo”.
Difatti, la dizione “il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni”, non può che essere interpretata come regola di valutazione delle prove che si impone, in termini di specialità, sulle norme di cui all’art. 116 c.p.c., pur richiamate nel processo tributario dall’art. 1, ultimo comma, del D.Lgs. 546/1992.

La disamina della modulazione dei criteri di valutazione delle prove, difatti, impone al giudice di adottare il vaglio delle prove a valle della regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova e di applicare un metodo di valutazione che esponga un iter logico-giuridico di disamina della:

 

  • Oggettività;
  • Completezza;
  • Ragionevolezza;
  • Coerenza con la normativa tributaria sostanziale.

In tal senso, il criterio di valutazione delle prove si pone in una fase logicamente e giuridicamente successiva alla ammissione ed alla formazione della prova ed è intesa a rendere oggetto di disamina l’idoneità della prova al fine di sostenere la pretesa avanzata dall’Amministrazione Finanziaria: ove la prova non raggiunga un grado di completezza e di coerenza con la normativa tributaria sostanziale, l’applicazione della regola “in dubio pro adsiduo” determina l’annullamento dell’atto impositivo.

Il canone di “oggettività” sotteso alla disciplina di valutazione delle prove è teso alla dimostrazione, con un grado di convincimento idoneo a superare ogni ragionevole dubbio, dell’esistenza della pretesa avanzata dall’Amministrazione Finanziaria.

 Il canone di “completezza” sotteso alla disciplina di valutazione delle prove rappresenta una declinazione dell’oggettività della prova ed è, dunque, teso alla dimostrazione, con un grado di convincimento idoneo a superare ogni ragionevole dubbio, dell’esistenza della pretesa avanzata dall’Amministrazione Finanziaria.

Il canone della “ragionevolezza” e della “coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, entrambi sottesi alla disciplina di valutazione delle prove, sono tesi alla qualificazione dell’oggettività della prova, ove precisano che la dimostrazione, con un grado di convincimento idoneo a superare ogni ragionevole dubbio, dell’esistenza della pretesa avanzata dall’Amministrazione Finanziaria deve essere inquadrata nel rispetto dei principi e delle norme che disciplinano la formazione della pretesa tributaria in via sostanziale, escludendosi valenza di prova ad elementi che non siano coerenti con i principi, le finalità ed i criteri espressi dall’ordinamento tributario.

I descritti criteri di valutazione delle prove appaiono idonei a conformare le decisioni dei giudici tributari alla vera e più profonda natura dei principi che conformano l’ordinamento tributario, escludendosi l’attribuzione di valenza di prova a ragionamenti presuntivi o ad elementi documentali che non possano essere letti in coerenza (e, dunque, manchino di completezza ed oggettività) con l’ordinamento tributario.

Da ciò consegue che, nel processo tributario, i criteri di ammissione delle presunzioni semplici, non saranno più determinati dai canoni della gravità, precisione e concordanza ma, differentemente, dai canoni della Oggettività, Completezza, Ragionevolezza, tutti in coerenza con la normativa tributaria sostanziale.

Valutando la presunzione da ristretta base partecipativa secondo i sopra esposti criteri non può non affermarsi che è preclusa al giudice tributario l’attribuzione, alla ristretta composizione societaria dell’ente capitalistico, di alcuna rilevanza di automatismo.

Difatti, si è già rilevato che l’accertamento del maggior reddito in capo all’Ente societario rappresenta un presupposto logico-giuridico della rettifica: logico precipitato che la dimostrazione del maggior reddito abbia carattere logicamente pregiudiziale, risultando la contestazione ammessa al socio, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. 546/1992, anche qualora la società non abbia impugnato l’avviso di accertamento ed, escludendosi la sussistenza di un rapporto litisconsortile (Cassazione Ordinanza n. 23825 del 28.10.2020).

Pertanto, nell’orientamento consolidatosi anteriormente la novella di cui alla L. 130/2022, a valle dell’accertamento del maggior reddito in capo all’Ente societario, il sillogismo presuntivo si fonda sul fatto noto rinvenuto nella ristretta base partecipativa, il cui carattere di “gravità” è ritrovato sulla “considerazione della complicità che normalmente avvince i membri di una ristretta compagine sociale” (Cass. civ. n. 941/1986 e Cass. civ. n. 5729/1995). 

Non può non rilevarsi che, al vaglio dell’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. 546/1992, il descritto ragionamento presuntivo non è idoneo a fondare la rettifica in quanto non supera la regola di giudizio fondata sul principio “in dubio pro adsiduo”.

Il descritto meccanismo presuntivo risulta carente in relazione al canone di “oggettività” in quanto non idoneo a dimostrare, con un grado di convincimento idoneo a superare ogni ragionevole dubbio, l’effettiva esistenza di un trasferimento di risorse finanziarie dall’Ente societario ai soci.

Il descritto meccanismo presuntivo risulta carente in relazione al canone di “completezza” in quanto non idoneo a dimostrare, con un grado di convincimento idoneo a superare ogni ragionevole dubbio, l’effettiva scelta di un trasferimento di risorse finanziarie dall’Ente societario ai soci in misura pari alle quote di partecipazione al capitale dell’Ente societario.

Il descritto meccanismo presuntivo risulta carente in relazione al canone della “ragionevolezza” e della “coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, entrambi sottesi alla disciplina di valutazione delle prove, in quanto non conformi alla prova analitica del rispetto del principio di cassa che, in forza della disciplina sostanziale, sottende l’imponibilità della distribuzione di utili.

Pertanto, i descritti criteri di valutazione delle prove appaiono idonei a conformare le decisioni dei giudici tributari alla vera e più profonda natura dei principi che conformano l’ordinamento tributario, escludendosi l’attribuzione di valenza di prova a ragionamenti presuntivi o ad elementi documentali che non possono essere letti in coerenza (e, dunque, manchino di completezza ed oggettività) con l’ordinamento tributario.

Pertanto, si può ragionevolmente concludere che la prova presuntiva fondata sulla ristrettezza della base societaria, alla luce dei criteri di valutazione della prova introdotti dall’art. 7, comma 5-bis, del D.lgs. 546/1992, non sia più sufficiente, da sola, a fondare la rettifica nei confronti dei soci, in quanto “insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque  in  coerenza  con  la  normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su  cui  si  fondano  la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni”

In tal senso, la mera allegazione della ristrettezza della base partecipativa non potrà più, da sola, fondare la rettifica in capo ai soci: l’Amministrazione Finanziaria dovrà onerarsi di allegare ulteriori prove od elementi di prova atte a dimostrare l’effettiva attribuzione degli elementi reddituali extracontabili “in  coerenza  con  la  normativa tributaria sostanziale” e, dunque, idonei a dimostrare che sia oggettivamente attribuita la risorsa extracontabile al socio anche nel rispetto del principio di cassa che sorregge l’imponibilità dei redditi di partecipazione in capo al socio persona fisica.

Evidentemente, i criteri di valutazione della prova introdotti dall’art. 7, comma 5-bis, del D.lgs. 546/1992, portano ad escludere, definitivamente, alcuna rilevanza presuntiva alle rettifiche sull’Ente societario che afferiscano a mera indeducibilità di costi, in quanto la rilevanza presuntiva di una rettifica in capo al socio, che assuma la rilevanza reddituale di rettifiche di natura meramente fiscale (conseguenti alla variazione in aumento del risultato reddituale ai fini fiscali) e non idonee ad incidere sul risultato civilistico di cui al conto economico, è del tutto da escludere in quanto non elevata “in  coerenza  con  la  normativa tributaria sostanziale” e, dunque, idonei a dimostrare che sia oggettivamente attribuita una risorsa extracontabile al socio anche nel rispetto del principio di cassa che sorregge l’imponibilità dei redditi di partecipazione in capo al socio persona fisica in quanto, nell’affermazione della mera indeducibilità di costi, si assume l’inesistenza di risorse finanziarie distribuibili.

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