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I derivati finanziari: cosa sono, a cosa servono e cosa nascondono


Per un corretto utilizzo dei derivati è necessario che si possa assicurare informativa precontrattuale e conoscenza dei rischi contrattuali
I derivati finanziari: cosa sono, a cosa servono e cosa nascondono

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

I “derivati finanziari” sono contratti finanziari che hanno ad oggetto altre attività finanziarie (tassi di interesse, tassi di cambio, ecc.) il cui valore varia continuamente nel tempo.

Sia l’esistenza stessa che il valore del derivato hanno dunque la loro “derivazione” da un’attività cd. sottostante.

Questa tipologia di contratti finanziari può essere stipulata direttamente tra due soggetti privati, dei quali, in genere, uno è un intermediario finanziario, attraverso operazioni cosiddette OTC (Over The Counter); in alternativa, i derivati possono essere scambiati in mercati organizzati, dando così origine a veri e propri prodotti finanziari. Lo scambio su mercati organizzati consente di disporre di un prezzo ufficiale quotato per il derivato ed impone la standardizzazione dei contratti, mentre i contratti che non transitano attraverso i mercati regolati (forward, gli swap, le opzioni) sono di fatto dei contratti atipici.
          


I contratti di swap

La costruzione degli strumenti finanziari derivati attualmente in uso si fonda sui quattro modelli fondamentali definiti nel D.lgs. 24.02.1998 n. 58 (cd. T.U.F. come modificato dal D.lgs. N. 146/2009) alle lettere f), g), h), i) del 2° comma dell’art. 1: future, swap, contratti a termine e option.

In particolare, con l’espressione swap si indicano alcuni contratti a termine attraverso i quali le parti “convengono di scambiarsi un determinato bene ad una certa data calcolando la quantità da scambiare in relazione ad uno o più indici assunti come riferimento al momento della conclusione del contratto. Più in generale le operazioni di swap possono avere come riferimento valute (currency swap), tassi di interesse (interest swaps), merci (commodity swaps) e anche indici azionari (equity swaps)”.

Per gli elevati profili di rischio sottostanti le operazioni di swap, ci si è evoluti verso un mercato bancario di tale tipologia di contratti, nel senso che sono stati gli intermediari finanziari a porsi come controparti contrattuali dei propri clienti, tenendo la posizione oppure compensandola in tutto o in parte sul mercato.

 


Il contratto base: IRS fisso contro variabile

Nel contratto base di Interest Rate Swap, una della parti (cd. “fix payer”) si impegna a corrispondere un tasso fisso per un prefissato periodo di tempo e a date prestabilite, mentre l’altra (cd. “fix receiver”) si impegna a corrispondere un tasso variabile, normalmente l’Euribor.

Gli interessi sono calcolati su un capitale di riferimento (cd. nozionale) che viene convenzionalmente prestabilito senza che sia oggetto di scambio tra le parti.  

Lo “scambio” può essere considerato equo solo se il tasso swap al momento della stipulazione del contratto è equivalente alla serie di tassi Euribor attesi.

Se le aspettative sull’evoluzione dei tassi di interesse a breve termine (Euribor) si concretizzano, il totale delle somme corrisposte da ciascuna delle due parti nel corso del contratto risulterebbe alla fine del contratto equivalente.

Se, invece, i tassi non seguono le aspettative, il contratto diverrebbe oneroso per una sola delle due parti contraenti, mentre avrebbe un valore di mercato positivo per l’altra parte.

A tale valore, il contratto potrebbe essere ceduto sul mercato e la medesima cifra dovrebbe essere versata dalla controparte, nel caso in cui intendesse estinguere anticipatamente il contratto stesso.

In sede di rinegoziazione di contratti swap in essere, è prassi diffusa per la Banca addebitare al cliente il prezzo di estinzione anticipata ed accreditare contestualmente la medesima somma al cliente come “upfront” del nuovo contratto.

       


L’utilizzo degli swap

Il ricorso al mercato degli swap da parte delle imprese può essere dovuto a finalità di copertura (hedging) ovvero di speculazione.

Nel primo caso, stipulando lo swap, l’impresa si sottrae al rischio di tasso di interesse stabilizzando il costo del debito mentre, nel secondo caso, si pone l’obiettivo di trarne benefici economici.

Senonché, di fatto si è registrata una forte asimmetria cognitiva ed informativa tra offerta e domanda oltre che una insufficiente conoscenza del rischio finanziario. Inoltre, le singole imprese non hanno condotto una efficace programmazione finanziaria, gestendo il rischio insito nell’operazione senza previamente quantificarne i costi.

Le banche, dal loro canto, hanno volutamente indotto i clienti a pensare che la consulenza finanziaria da esse prestata fosse oggettiva e non invece meramente strumentale alla conclusione della singola operazione, come in realtà è. Hanno, inoltre, omesso di esplicitare i costi degli strumenti finanziari, così creando il convincimento che costi non ce ne fossero.

Le imprese hanno, dunque, finito per acquistare strumenti finanziari inappropriati, inefficaci ed inefficienti, con costi impliciti elevati rispetto a strumenti elementari quale il cd. “plain vanilla”. In altre parole, hanno assunto – inconsapevolmente – i rischi dell’operazione su di sé invece di trasferirli sui soggetti qualificati a gestirli.

È, dunque, possibile che le banche – profittando di tale asimmetria informativa – abbiano proposto alle imprese questo complesso prodotto finanziario, agendo spesso in contropartita diretta, senza valutare adeguatamente in maniera preventiva la compatibilità dell’operazione proposta con la situazione finanziaria dell’impresa, affinché l’attività di intermediazione mobiliare fosse realmente svolta nell’interesse del cliente che avrebbe dovuto essere adeguatamente informato sui reali rischi dell’operazione.

Tanto in palese violazione dei principi di buona fede, di correttezza e di informazione del cliente sanciti per questo settore – già prima della entrata in vigore delle 2 MiFid – sia dall’art. 21 D.lgs. 58/1998 (c.d. T.U.F.) sia dagli artt. 26-28-29 Regolamento Consob 01.07.1998 n. 11522.

Orbene, l’art. 31 dello stesso Regolamento Consob n. 11522/98 esonerava l’intermediario dall’applicare le predette regole di comportamento contrattuale e pre-contrattuale solo nel caso in cui il cliente fosse un “operatore qualificato”.

È possibile, dunque, che i contratti quadro di IRS sottoscritti ante MiFid rechino la dichiarazione autografa dell’Amministratore Unico di essere operatore qualificato “… ai sensi dell’art. 31 del Regolamento Consob n. 11522 del 01.07.1998 in quanto in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari”.

Senonché, secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, tale dichiarazione autoreferenziale non avrebbe dovuto esentare la banca dall’onere di verificare l’effettivo possesso delle competenze autocertificate dal proprio cliente.

Poiché, dunque, la dichiarazione autoreferenziale rilasciata dall’impresa cliente era da considerarsi completamente inefficace, è evidente che gli Istituti Bancari non potevano esimersi dall’osservare quegli obblighi sottesi allo statuto protettivo predisposto per gli operatori non qualificati. Ne deriva l’assoluta invalidità del contratto in derivati eventualmente sottoscritto con la dichiarazione di operatore qualificato.

Oggi, prima la Mifid 1 recepita in Italia con D.lgs. 164/2007 e poi la Mifid 2, entrata in vigore il 03.01.2018, stabiliscono regole più stringenti per la valutazione della cd. “adeguatezza del rischio” e per la conseguente classificazione dell’investitore. Inoltre, impongono a Banche e intermediari l’obbligo di una informativa pre-contrattuale semplice e trasparente.

Sono state individuate tre tipologie di clienti: il cliente al dettaglio (retail), definito in modo negativo in quanto né cliente professionale né controparte qualificata; il cliente professionale, categoria alla quale appartengono di diritto i soggetti autorizzati a svolgere servizi di investimento, i governi nazionali e locali, gli enti pubblici, le banche centrali e le istituzioni internazionali; e il cliente qualificato, un sottoinsieme dei soggetti professionali – non se ne fa parte di diritto, a differenza della categoria professionale, ma occorre presentare una richiesta e attendere un’autorizzazione – composto da imprese di investimento, enti creditizi e assicurativi, fondi pensione, governi nazionali, banche centrali e istituzioni internazionali.

Questi tre livelli di clientela rispecchiano (o dovrebbero rispecchiare) livelli via via crescenti di competenze finanziarie, a cui devono corrispondere diversi livelli di informazione dovuti per legge prima della firma del contratto.

Infine, la Mifid 2 introduce anche la possibilità, per l’autorità di controllo europea (ESMA) o per i controllori nazionali (in Italia Consob e Banca d’Italia) la possibilità di sospendere la vendita di alcuni strumenti finanziari se ritenuti minacciosi per le protezioni dei risparmiatori...

 


Conclusioni

È fondamentale, dunque, prima di stipulare un derivato, saper distinguere un derivato “di copertura” da un derivato “speculativo” e quindi, verificando caso per caso i parametri finanziari (nozionale, durata, tasso parametro banca, tasso parametro cliente, ecc.), stabilire l’efficacia della copertura (ossia l’effetto combinato debito/derivato) e l’efficienza stessa del derivato.

Una volta stipulato un derivato, occorre poi prestare particolare attenzione alle eventuali proposte di ristrutturazione provenienti dall’intermediario.

Le ristrutturazioni consistono nell’estinzione anticipata dei prodotti finanziari in essere il cui valore di liquidazione (“mark to market”) genericamente negativo viene compensato dal premio (o “upfront”) del nuovo prodotto. Esse si giustificano solo in caso di corrispondenti modifiche nel sottostante, altrimenti la scelta di estinzione anticipata è meramente speculativa. Inoltre, ove si accerti che il prodotto sostitutivo ha natura speculativa, la sostituzione è sempre speculativa.

Il danno che un’azienda può subire per non aver stipulato in maniera consapevole un derivato non va confuso con gli effetti finanziari dei contratti (somma di Mark to market e regolazioni periodiche).

Tramite l’analisi differenziale, è possibile valutare l’inadeguatezza degli strumenti proposti (ossia quantificare gli effetti “ex post” di una copertura congrua, efficiente ed efficace cd. “benchmark” con riferimento al rischio a costi di mercato rispetto agli effetti del/i prodotto e tutte le successive rimodulazioni) nonché valutare i danni originati dalle rimodulazioni contrattuali (danni di natura economico finanziaria, legale, fiscale, creditizia).

Per un corretto utilizzo dei derivati è necessario che la direzione finanziaria nelle grandi imprese o il consulente esterno o infine gli amministratori possano assicurare informativa precontrattuale e conoscenza dei rischi contrattuali, valutare il rischio nonché congruità, efficacia ed efficienza degli strumenti da utilizzare.

Se, però, nella fase preliminare questo non è avvenuto, è possibile che l’azienda abbia acquistato dei derivati inadeguati ed inappropriati, subendo così danni (attuali e/o potenziali) notevoli.

In questi casi, occorrerà valutare l’opportunità di instaurare un contenzioso civile al fine di ottenere l’invalidazione del contratto e il risarcimento del danno subito.

Sempre più frequente è stato, inoltre, il ricorso ai derivati da parte degli enti locali: in particolare le banche hanno proposto loro uno swap ‘a copertura’ (cioè come assicurazione) dai rischi delle dinamiche dei tassi per i debiti contratti. Senonché i contratti che gli enti locali hanno sottoscritto, per come erano strutturati, hanno finito per assumere una funzione speculativa provocando ingenti perdite sui già sgangherati bilanci pubblici. Nonostante ciò, gli enti locali continuano a firmare questi contratti per svariati motivi tra cui la possibilità, fino alla scadenza del contratto, di non mettere a bilancio le eventuali perdite ed il fatto che con tali strumenti le Banche possono offrire alle amministrazioni iniezioni di liquidità.

Il fenomeno aveva assunto dimensioni talmente allarmanti sulla finanza pubblica che con la legge n. 147/2013 è stato vietato agli enti locali di stipulare contratti relativi agli strumenti finanziari derivati, procedere a rinegoziare i contratti derivati in essere alla data di entrata in vigore della disposizione, stipulare contratti di finanziamento che includono componenti derivate.

Sull’argomento, fa già molto discutere la recentissima pronuncia n.8770 a Sezioni Unite Civili che è intervenuta sulla delicata materia dei contratti derivati sottoscritti da enti pubblici e locali, statuendo alcuni principi generali particolarmente salienti. Ha, infatti, statuito la S.C. che “Il riconoscimento della legittimazione dell’Amministrazione a concludere contratti derivati, sulla base della disciplina vigente sino al 2013 (quando la l. n. 147 del 2013 ne ha escluso la possibilità) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, comportava che solamente nel primo caso l’ente locale potesse dirsi legittimato a procedere allo loro stipula; nondimeno, tale stipula poteva utilmente ed efficacemente avvenire solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market, sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, costituente una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio”.

 

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