I disagi delle donne medico
Caso pratico, le donne medico e le discriminazioni sul posto di lavoro
Da una recente indagine emerge che la progressione di carriera per le donne medico con figli si rivela più ardua ora che in passato: le difficoltà vengono denunciate dal 58% delle giovani donne (31-40 anni), contro il 49% nella fascia d’età 51-60.
Esperienze di mobbing e discriminazione di genere in seguito a stato di gravidanza e maternità risultano essere più frequenti nelle donne che lavorano in ambito chirurgico (74% vs il 66% nelle specialità mediche).
Una lavoratrice prestava servizio presso una ASL costituendo con la stessa un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Accadeva che rientrata sul posto di lavoro a seguito del periodo di congedo per maternità, si vedeva assegnate la metà delle reperibilità previste nei giorni festivi presenti in un mese e via via si veniva a trovare in uno stato di emarginazione che si concretizzava con la predisposizione dei turni di lavoro. La dottoressa veniva sistematicamente destinata ai turni di prima reperibilità, nonostante avesse maturato l’anzianità necessaria per poter accedere ai turni di seconda reperibilità, in quanto i colleghi rifiutavano di cederle i turni di seconda reperibilità poiché ritenuta "arbitrariamente e ingiustificatamente troppo giovane", o a quelli nei giorni festivi, trascurando le rilevanti difficoltà di gestire turni, in giornate festive, per chi, come lei, doveva occuparsi di un bimbo piccolissimo.
Anche i turni di lavoro ordinari venivano assegnati con criteri diversi rispetto agli altri medici (uomini) della struttura, i quali sceglievano gli orari a loro più confacenti, senza effettuare una reale turnazione.
L’emarginazione e l’isolamento subito raggiungevano il culmine con la sottrazione dei mezzi utili per l’espletamento dell’attività lavorativa, come l’utilizzo del computer e della connessione internet, e la sottrazione di spazi per il ristoro come lo spogliatoio e il bagno riservato.
Le continue ed ingiustificate assegnazioni ai turni peggiori, ai lavori maggiormente gravosi, da espletare in assenza della strumentazione o della predisposizione del minimo indispensabile, nonché la suddivisione dell’orario di lavoro su due strutture, hanno provocato nel tempo un profondo senso di emarginazione e di totale non considerazione nella lavoratrice.
Il caso della suddetta lavoratrice è solo uno dei molteplici esempi di donne medico che hanno subito discriminazione lavorativa per il fatto di essere donne e madri.
La L. 10 aprile 1991, n. 125, art. 4, commi 1 e 2 stabilisce che: "Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Inoltre la L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 3 stabilisce che: "È vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera".
Il caso in esame ha evidenziato che i turni stressanti, una non corretta distribuzione del carico di lavoro e la dislocazione del luogo di lavoro, comportano inevitabilmente uno stress da lavoro e in merito a questo l’art. 28 del T.U. amplifica i profili di responsabilità (penale) a carico del datore di lavoro in ordine alla valutazione e prevenzione dello stress lavoro-correlato. Rileva in misura determinante l’assunzione della posizione di garanzia in capo al datore di lavoro, che non a caso ha la propria ratio nell’art.2087 c.c.. Ai sensi di tale disposizione si è costruita ab initio e mantenuta nel tempo la figura di un garante dell’incolumità fisica e morale dei lavoratori senza precedenti, con l’estrema conseguenza della penale responsabilità in sede di non adempimento di tutela degli obblighi ex legge, per effetto dell’equivalenza causale tra condotta attiva ed omissione non impeditiva. Il datore di lavoro, pertanto, deve sempre attivarsi positivamente non solo per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, ma prevenire possibili eventi lesivi conseguenti il malessere e le disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali, che conseguono le persone, quando non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti, cogliendo quei potenziali indicatori di stress, di cui all’art. 4 dell’Accordo europeo.
Alla luce di quanto sopra si richiede di frequente la stesura di lettere rivolte ai direttori generali degli ospedali per intimare l’immediata cessazione degli atti/azioni/atteggiamenti volti a stressare, discriminare, emarginare la lavoratrice.
Mobbing, discriminazione, difficoltà di accesso alle cariche apicali condizionano la possibilità delle donne medico di richiedere il congedo di maternità nei tempi e nei modi previsti dalla legge e si deve spesso ricorrere ad interventi volti a garantire il rispetto della normativa sulla tutela della maternità.
Esperienze di mobbing e discriminazione di genere in seguito a stato di gravidanza e maternità risultano essere più frequenti nelle donne che lavorano in ambito chirurgico (74% vs il 66% nelle specialità mediche).
Una lavoratrice prestava servizio presso una ASL costituendo con la stessa un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Accadeva che rientrata sul posto di lavoro a seguito del periodo di congedo per maternità, si vedeva assegnate la metà delle reperibilità previste nei giorni festivi presenti in un mese e via via si veniva a trovare in uno stato di emarginazione che si concretizzava con la predisposizione dei turni di lavoro. La dottoressa veniva sistematicamente destinata ai turni di prima reperibilità, nonostante avesse maturato l’anzianità necessaria per poter accedere ai turni di seconda reperibilità, in quanto i colleghi rifiutavano di cederle i turni di seconda reperibilità poiché ritenuta "arbitrariamente e ingiustificatamente troppo giovane", o a quelli nei giorni festivi, trascurando le rilevanti difficoltà di gestire turni, in giornate festive, per chi, come lei, doveva occuparsi di un bimbo piccolissimo.
Anche i turni di lavoro ordinari venivano assegnati con criteri diversi rispetto agli altri medici (uomini) della struttura, i quali sceglievano gli orari a loro più confacenti, senza effettuare una reale turnazione.
L’emarginazione e l’isolamento subito raggiungevano il culmine con la sottrazione dei mezzi utili per l’espletamento dell’attività lavorativa, come l’utilizzo del computer e della connessione internet, e la sottrazione di spazi per il ristoro come lo spogliatoio e il bagno riservato.
Le continue ed ingiustificate assegnazioni ai turni peggiori, ai lavori maggiormente gravosi, da espletare in assenza della strumentazione o della predisposizione del minimo indispensabile, nonché la suddivisione dell’orario di lavoro su due strutture, hanno provocato nel tempo un profondo senso di emarginazione e di totale non considerazione nella lavoratrice.
Il caso della suddetta lavoratrice è solo uno dei molteplici esempi di donne medico che hanno subito discriminazione lavorativa per il fatto di essere donne e madri.
La L. 10 aprile 1991, n. 125, art. 4, commi 1 e 2 stabilisce che: "Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Inoltre la L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 3 stabilisce che: "È vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera".
Il caso in esame ha evidenziato che i turni stressanti, una non corretta distribuzione del carico di lavoro e la dislocazione del luogo di lavoro, comportano inevitabilmente uno stress da lavoro e in merito a questo l’art. 28 del T.U. amplifica i profili di responsabilità (penale) a carico del datore di lavoro in ordine alla valutazione e prevenzione dello stress lavoro-correlato. Rileva in misura determinante l’assunzione della posizione di garanzia in capo al datore di lavoro, che non a caso ha la propria ratio nell’art.2087 c.c.. Ai sensi di tale disposizione si è costruita ab initio e mantenuta nel tempo la figura di un garante dell’incolumità fisica e morale dei lavoratori senza precedenti, con l’estrema conseguenza della penale responsabilità in sede di non adempimento di tutela degli obblighi ex legge, per effetto dell’equivalenza causale tra condotta attiva ed omissione non impeditiva. Il datore di lavoro, pertanto, deve sempre attivarsi positivamente non solo per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, ma prevenire possibili eventi lesivi conseguenti il malessere e le disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali, che conseguono le persone, quando non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti, cogliendo quei potenziali indicatori di stress, di cui all’art. 4 dell’Accordo europeo.
Alla luce di quanto sopra si richiede di frequente la stesura di lettere rivolte ai direttori generali degli ospedali per intimare l’immediata cessazione degli atti/azioni/atteggiamenti volti a stressare, discriminare, emarginare la lavoratrice.
Mobbing, discriminazione, difficoltà di accesso alle cariche apicali condizionano la possibilità delle donne medico di richiedere il congedo di maternità nei tempi e nei modi previsti dalla legge e si deve spesso ricorrere ad interventi volti a garantire il rispetto della normativa sulla tutela della maternità.
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