I poteri delle commissioni tributarie


La Cassazione ha assunto in passato l’orientamento secondo cui il processo tributario era da considerare “misto" ossia inquisitorio e dispositivo
I poteri delle commissioni tributarie

- L’art.7 del D.lgs.n°546/1992. Limiti ai poteri istruttori dei Giudici tributari:
La previsione normativa di cui all’art.7 del D.lgs.n°546/1002 dispone testualmente: "Le Commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferiti agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta". Il presente lavoro partendo proprio dall’analisi del dato normativo, focalizza gli aspetti tecnici e procedurali più significativi demandati al Giudice tributario in chiave istruttoria".
Dalla lettura testuale della previsione normativa di cui sopra, si evince inequivocabilmente che l’oggetto del procedimento instaurato davanti al Giudice tributario viene determinato dalle parti in causa le quali hanno un potere dispositivo pieno; mentre nella ricerca delle prove una volta formatosi il quid disputandum è affidato alla Commissione tributaria adita.
Tale affermazione desumibile dalla disciplina attualmente contenuta nel richiamato art. 7, comma 1 del D.lgs.n°546/1992 deve essere recepita cum grano salis in considerazione del fatto che non implica la totale abolizione del principio dell’onere della prova disposto dall’art. 2697 c.c.
Infatti, sussiste sempre a carico delle parti costitute l’onere di provare i fatti dedotti nel processo; tuttavia, tale onere di parte può esaurirsi anche con semplici allegazioni probatorie perché è fatto salvo il potere del giudice adito di integrare con la propria attività quella delle parti costituitesi in giudizio.
Pertanto, rimane comunque vigente il principio secondo cui è l’interessato a dover dedurre i fatti impeditivi, estintivi o modificativi della pretesa fiscale avanzata con l’atto impugnato, e spetterà per contro all’ente impositore contro dedurre in merito ed allegare ciò che è necessario per poter contrastare le ragioni addotte dalla parte avversa. E’ possibile sostenere quindi, che è evidente nel processo tributario la prevalenza del principio inquisitorio ma che esso sia stato recepito dalla legge solo nell’ambito del quid disputandum. Particolarmente inbteressante è l'analisi finalizzata a focalizzare i poteri dei Giudici tributari in ordine alla disapplicazione dei Regolamenti comunali adottai dagli enti locali ex D.lgs.n°446/1997 nella gestione dei tributi di spettanza.

- Il Potere di disapplicazione dei Regolamenti comunali ex art.7 comma 5 del D.lgs.n°546/1992:
Al di fuori del campo di applicazione delle prove legali che restringono o annullano il potere di accertamento e di valutazione, le Commissioni tributarie cosi come il giudice civile hanno ampi margini di valutazione con riferimento alla valenza effettiva delle prove in ordine ai fatti oggetto di causa. Pertanto si è ritenuto che non debba prendersi in considerazione ciò che risulta da un atto notorio quando la Commissione tributaria adita attraverso fatti e circostanze acquisiti agli atti è giunta a convincimenti diversi dandone adeguata motivazione. Quindi, potere discrezionale nell’ammettere le prove e libertà di valutazione delle stesse.
La previsione normativa di cui all’art. 7 comma 5 del d.lgs. n. 546/1992 dispone testualmente che: "le Commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente."
Possiamo dire che la disciplina contenuta nella norma appena richiamata non ha nulla a che vedere con la materia delle prove poiché trattasi della elaborazione di un principio generale già vigente nel D.P.R. n. 636/1972 e successive modificazioni dove era già prevista la possibilità da parte del giudice tributario (come quello civile e amministrativo) di disapplicare un regolamento o un atto amministrativo in generale qualora risultassero palesemente illegittimi o meglio contra legem.
Tale principio normativo recepito in toto dal richiamato art. 7, comma 5 del d.lgs. n. 546/1992 risale alla legge 20 marzo 1865, il cui art. 4 lo codificò per la prima volta in omaggio al principio della divisione dei poteri e per esso quando l’autorità giudiziaria riconosce che un atto amministrativo è illegittimo; per atto amministrativo si intende sia quello generale, come i regolamenti che quello particolare limitandosi a pronunciarsi sugli effetti che da tale illegittimità sono derivati in modo pregiudizievole per l’interessato, ma non può modificare o revocare l’atto medesimo. Infatti, qualora il giudice tributario o ordinario potesse modificare o revocare un provvedimento amministrativo eserciterebbe esso stesso un’attività amministrativa; cosa che sarebbe appunto in contrasto con il principio della divisione dei poteri. Alla revoca è equiparato l’annullamento dell’atto che pure produrrebbe lo stesso risultato.
Quando si parla di atti generali, si deve intendere tutti gli atti di contenuto normativo emessi dalla pubblica amministrazione che hanno come destinatari una serie indistinta di soggetti che al momento della emissione dell’atto stesso non sono individuati ne tanto meno individuabili. Tutto ciò implica che se l’atto impositivo trova fondamento in un atto generale o in un regolamento illegittimo tale illegittimità può rilevare solo al fine di dichiarare l’illegittimità dell’atto impositivo stesso.
In merito, rileva precisare che tale potere di disapplicazione riconosciuto palesemente al giudice tributario (art. 7 comma 5) e la previsione di una possibile impugnazione nella diversa sede competente, non introduce un sistema di doppia tutela dinanzi al giudice tributario e al giudice amministrativo.
Esula, invece, dai poteri riconosciuti ai Collegi tributari la cognizione in via principale del regolamento e dell’atto generale impugnato direttamente, in quanto il richiamato art. 7, comma 5 del D.lgs. n. 546/1992 è chiaro nel determinare i poteri del giudice tributario incidenter tantum.,
Interessante in tal senso, è la pronuncia della C.T.P. di Roma che con sent. del 18 giugno 1999, n. 218 utilizzando i poteri che gli derivano proprio dalla norma in commento non ha esitato a dichiarare illegittimo il regolamento comunale adottato dal Comune di Roma con la deliberazione approvata dal Consiglio comunale relativamente alla parte in cui era evidente il contrasto con l’art. 12 del D.lgs n. 507/1993, disponendo, la previsione regolamentare, l’applicazione della tariffa annuale a tutte le affissioni indipendentemente dalla loro durata inferiore all’anno. In tal caso, la disapplicazione del regolamento comunale ha comportato quale logica conseguenza l’annullamento di tutti gli avvisi di accertamento emessi e notificati dal Comune impositore ai soggetti passivi nel Comune di Roma.
Sulla questione specifica appena richiamata rileva precisare, ad avviso di chi scrive, che quando parliamo in dettaglio di disapplicazione (riferita al regolamento comunale) essa consiste nel considerare tamquam non esset gli atti ritenuti non conformi alla legge.
Trattasi, in sostanza, di una manifestazione del potere giudiziario che non implica il ritiro dell’atto viziato con efficacia ex tunc bensì alla privazione dell’atto stesso con riferimento al caso concreto, inteso nella sua specificità. In particolare, possiamo dire con maggiore chiarezza che l’atto può essere privato della sua efficacia solo nel contesto processuale in cui è stata eccepita l’illegittimità e, non anche, contestualmente in tutti i processi pendenti in cui l’atto stesso continua ad avere rilevanza. Ne deriva, che non è esclusa la possibilità che possa verificarsi un contrasto tra le Commissioni tributarie circa l’applicazione dei predetti atti. I vizi possono essere fatti valere incidenter tantum ai fini della disapplicazioni innanzi ai giudici tributari; possono, invece essere dedotti in via principale e diretta davanti al giudice di legittimità. Ne deriva che con specifico riferimento ai regolamenti comunali ex D.lgs.n°446/1997 che tanta importanza hanno nella gestione del singolo tributo, a seguito delle previsioni inserite nella Legge di Stabilità (L.n°190/2015) dinanzi alle commissioni tributarie potrà essere richiesta soltanto la disapplicazione del regolamento comunale, nonché degli atti generali rilevanti ai fini della specifica questione tributaria per cui si controverte; fermo restando la possibilità di impugnativa degli stessi innanzi al giudice amministrativo secondo i normali criteri di riparto della giurisdizione.
In particolare, rileva segnalare l’obbligo da parte del ricorrente di eccepire nel proprio atto di parte esplicita domanda di disapplicazione del regolamento comunale o in generale di atti amministrativi disposti dall’ente impositore che possono essere rilevanti ai fini del giudicato finale.

Pertanto, deve ritenersi evidentemente preclusa la possibilità di disapplicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, della delibera comunale con la quale è stata determinata lì aliquota IMU anche nel caso in cui la stessa sia stata adottata dall’ente impositore oltre il termine previsto ex lege. Ne deriva che affinchè il giudice tributario adito possa disporre in sede giudiziale la disapplicazione dell’atto deliberativo è necessaria quale conditio sine qua non l’espressa richiesta nel ricorso introduttivo di disapplicazione della delibera adottata dal comunale.

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di Avv. Giuseppe DURANTE

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