Il bisogno e la paura dell’altro


Alcune riflessioni sull’uso e abuso dei social network
Il bisogno e la paura dell’altro
Tutti abbiamo bisogno di una relazione, di una persona accanto. La vita nella sua quotidianità se affrontata da soli fa più paura, eppure in questo momento storico siamo sempre più soli o invischiati in relazioni precarie e superficiali.
Come mai?
I ritmi alienanti della vita moderna (giornate intere spese tra spostamenti e lavoro, soprattutto nelle grandi città), i valori fondati sull’individualismo (bastare a se stessi), sulla riuscita personale, le nostre paure ci portano a dimenticare l’altro e a chiuderci in noi stessi, pur se ne abbiamo bisogno, un bisogno che ci accompagna "dalla culla alla tomba", diceva Bowlby, il teorico dell’attaccamento.
L’uomo è un animale sociale, definisce la sua identità nelle relazioni. Inizia nella relazione familiare, prosegue in altre relazioni significative (amicizie, partner), che gli consentono di esprimersi, arricchirsi, di dare e ricevere affetto, protezione e cura.
Se è vero che in alcuni momenti riusciamo e vogliamo stare soli, non siamo strutturati per la solitudine, eppure osserviamo maggiori difficoltà, paure nel contatto con l’altro, a stare in una relazione intima e profonda.
In questo scenario arrivano i social network che cavalcano questa ambivalenza tra bisogno e paura dell’altro.

I social network ci permettono di entrare in conoscere tante persone, di avere tante relazioni. Conoscere attraverso la rete ci protegge dal confronto. Cosi possiamo soddisfare questo nostro primitivo e fondamentale bisogno, ma a che prezzo?
Il loro dilagare ci porta ad una riflessione: e se il loro successo non fosse solo dovuto ad una questione di comodità, ma anche ad una sorta di paura? La paura che potremmo provare nel confronto con l’altro, nell’impegno di una relazione.
Essere in relazione significa impegnarsi in quel legame, significa accettare le diversità dell’altro e provare ad integrarle nella propria esperienza, significa guardare anche se stessi, accettare e scoprire parti di se stessi e metterne a tacere altre, significa ridefinirsi, senza perdere però la propria unicità. Forse è proprio questo che temiamo?

I social facilitano il contatto, mettendo a tacere le nostre paure è vero ma ci espongono ad una molteplicità di relazioni superficiali e precarie. Addirittura esiste un sito che consente di scrivere alla persona che si frequenta, con cui si ha un legame, che la relazione è finita, liberandoci cosi dalla difficoltà e dall’imbarazzo, ma contribuendo anche ad aumentare il disimpegno nella relazione

L’intenzione non è quella di denigrare i social network, non sono sbagliati o dannosi. Pericoloso è invece pensare che siano l’unico modo per entrare in contatto con gli altri o per vincere le proprie paure.

Se diventiamo amici di tutti con un click, se limitiamo i nostri contatti a chi "ci piace", solo a chi è in sintonia con noi, avremmo si tanti amici social, ci sentiremo meno soli ma avremmo meno opportunità per confrontarci con i nostri limiti e le nostre paure. Impoveriamo la nostra naturale empatia, la capacità che ci permette di accettare le differenze, di accogliere l’altro senza giudicare.

Se svuotiamo un legame di tutti questi fattori, cosa diventa? Se una persona si può sostituire con un’altra con facilità questa perde il suo valore unico. Non solo, l’altro diventa sempre più distante ed estraneo e come tale mette sempre più paura.
In una società che ci chiede di correre sarebbe più utile fermarsi un attimo e ascoltare le nostre paure, riconoscere i nostri limiti. Temiamo l’altro? Perché? Temiamo la solitudine? Temo di essere ferito? Non mi sento all’altezza?

In alcune situazioni questi interrogativi rimandano a forte disagio e sofferenza personale, per cui è necessario magari un percorso di aiuto, ma la maggior parte di noi potrebbe provare.
Proviamo ad alzare gli occhi dal nostro smart-phone, proviamo a riscoprire lo sguardo, il saluto il mondo dell’altro.
Conoscere, scoprire l’altro è anche scoprire nuovi aspetti di sé stessi.


Articolo del:


di Dr.ssa Marzia Dileo

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