Il coaching manageriale


Che cosa può ottenere un manager dal suo coach? E` utile, anche se il coach non è competente nel business
Il coaching manageriale
articolo pubblicato su OUTSIDER - settembre 2016

Marcella ha 33 anni, una brillante laurea in ingegneria, una solida esperienza di tecnico in un grande Gruppo accompagnata dalla collaborazione con il Politecnico, così, tanto per tenersi aggiornata. La dirigenza finalmente arriva, e con questa una struttura da coordinare, motivare, indirizzare...
Marcella ha imparato che se usa la sua intelligenza e lavora sodo i risultati arrivano. Tutta la sua vita glielo conferma. Ma perché non funziona con i collaboratori?

In questo caso, ci vuole un coach.
Non basta un libro, perché il problema non è di tipo cognitivo. Non basta copiare il capo, perché il suo stile di leadership potrebbe non funzionare quando interpretato da altri. Non basta un corso, perché Marcella deve focalizzarsi sulla sua situazione specifica.
Un coach la aiuterà a trovare la sua via all’assunzione di un ruolo manageriale, fatto di complessità relazionali e non solo tecniche.

Per chi a questo punto pensa che un coach manageriale si occupa solo di aiutare i coachee a migliorare leadership e coordinamento di collaboratori, ecco altre due storie.

Riccardo di anni ne ha 40, e ha costruito la carriera sulla sua notevole capacità di essere in buoni rapporti con tutti. Gran lavoratore, sempre disponibile quando serve, pronto a intuire che cosa va fatto e ad anticipare le esigenze di capi e clienti, insuperabile nei ruoli di contatto: inevitabile la promozione ad una posizione di responsabilità.
Qui Riccardo applica la sua ricetta di successo: ovvero ascolta, parla, cerca di mediare, punta ad accontentare tutti, si rende disponibile. Fatica ad accorgersi che questa volta lo schema non funziona; è lontanissima da lui l’intuizione che un capo deve saper dire no, forse più spesso di quanto dice sì. Deve decidere, tagliare, togliere.

O ancora.
La fusione dell’azienda con un ex concorrente ha catapultato Uberto alla testa di un business molto più complesso di quello che ha gestito finora. La sfida manageriale, che la stampa finanziaria ha definito altamente innovativa, lo vede senza mappa e senza strumenti. Ma con l’esigenza di portare un risultato positivo agli azionisti già entro pochi mesi.
Ci vuole un coach. Che aiuti il coachee in interpretazioni del ruolo che per lui sono nuove, faccia emergere le skill che servono, sostenga lungo il percorso di acquisizione.
Come nel primo caso, non bastano un libro, lo stimolo del capo, un corso di formazione.

Un percorso di coaching manageriale consente di sbloccare una o più potenzialità del coachee, un dirigente o un quadro; appunto, una persona che per il suo percorso di carriera non può più puntare esclusivamente su capacità settoriali (tecniche, di marketing, etc.).
Il coach farà in modo che il coachee veda e poi esplori altri modi di affrontare le situazioni, quelle in cui si è sentito in difficoltà. Non farà insegnamento, ma maieutica, tirando fuori abilità e comportamenti che c’erano già allo stato latente, inespresso. P es:
• capacità decisionale,
• sensibilità nel coordinare le persone,
• velocità nell’assegnare e variare le priorità,
• gusto per la pianificazione,
• capacità di rischiare e di stare nell’incertezza,
• abilità politiche.
Il coach mostrerà la strada, e aiuterà il coachee a percorrerla.
Normalmente inizia proponendo un programma*, ovvero un certo numero di incontri nell’arco di tot mesi. Il primo passaggio è la definizione dell’obiettivo, una cosa meno ovvia e meno facile di quanto sembra.
Prosegue con esercizi mirati nel quadro di metodologie precise, per esempio l’uso di metafore, l’analisi dei casi specifici di successo e insuccesso del coachee, il racconto della sua storia professionale, sperimentazioni parziali, utilizzo di location evocative, analisi paradossali. Può anche osservare il coachee in una riunione o in una trattativa, e suggerirgli poi comportamenti nuovi. Lo sostiene nell’adozione dei nuovi comportamenti finché diventano un automatismo, una buona abitudine (come suggeriscono le neuroscienze).
Termina con un incontro di sintesi, ed eventualmente con un report scritto, che fa il punto della situazione e aiuta a consolidare e dare valore a quanto si è acquisito. E poi ripartire.

A volte il management coach si trasforma anche in consulente, insegnante, mentore, sparring partner del suo coachee. Succede quando ha la competenza che gli permette di insegnare, o l’esperienza pregressa che lo autorizza a porsi come mentore, o la padronanza del contesto che aiuta a simulare l’opposizione.


* è stata pubblicata nel novembre 2015 la noma UNI sul servizio di coaching

Articolo del:


di Cristina Volpi

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