Il deficit ovvero la Mancanza Fondamentale
La mancanza fondamentale consiste nell’impossibilità del paziente di riuscire a identificare il motivo del suo deficit difficile da scoprire
La teoria del deficit secondo la quale la sofferenza mentale di competenza della cura psicoanalitica avrebbe avuto la sua lontana origine in qualche mancanza nella relazione primaria tra il bambino e chi lo accudisce, si è progressivamente contrapposta alla teoria del conflitto come causa della sofferenza nevrotica, di cui abbiamo scritto nel precedente articolo.
La mancanza originaria, o deficit, può essere paragonata ad un equipaggiamento gravemente difettoso e per il quale non si è ancora trovato alcun rimedio.
Il rimedio al "difetto di equipaggiamento" dovrebbe fornire una riparazione a uno stato primario dove chi cura il bambino non ha offerto un alimento caratterizzato da comprensione e partecipazione affettiva sufficiente per ammortizzare le angosce elementari che lo stato di dipendenza e di impotenza infantile comporta. Il bambino non avrebbe così "appreso" a vivere queste angosce senza esserne travolto. Il rimedio ovvero la riparazione consisterebbe allora nel fornire a posteriori una esperienza di comprensione empatica.
Personalmente, penso che la "strana" opposizione a legittimi desideri di benessere nei nostri pazienti derivi da esperienze di gravi angosce o addirittura da situazioni traumatiche che nel passato hanno perturbato gravemente il progetto, non necessariamente cosciente, di liberazione da uno stato di malessere. Ne è così nata la "stranezza" caratterizzata dal sentirci impediti di abbandonare uno stato di disagio e di avviarci quindi verso una meta felice, perché questo percorso risulta inconsciamente associato a sofferenze traumatiche o ad antichi vissuti mortiferi.
Nella mia prassi utilizzo due coordinate per l’individuazione dei difetti originari, dove la prima è introduttiva alla seconda.
La prima si può desumere da un comportamento in analisi che è in modo evidente dannoso per lo sviluppo del lavoro analitico e che, in aggiunta, non lascia spazio a tentativi di elaborazione del suo significato. Può essere per esempio una ripetitività significativa nell’assenza alle sedute o una particolare opposività alla libera associazione o un cronico atteggiamento concorrenziale con l’analista. Dobbiamo concludere che siamo messi di fronte ad un settore della sua attività mentale rispetto alla quale c’è una porta chiusa e un cartello con la scritta "non entrare".
La seconda coordinata è il racconto del sogno dove prima o poi comparirà qualche elemento bizzarro o confuso, ma alcune volte del tutto chiaro, sia pur non collegato con l’orizzonte di senso già costruito, che si rivelerà la chiave di volta della "porta" che precedentemente ci risultava chiusa.
In conclusione non vedo conflittualità tra la teoria del conflitto e la teoria del deficit nella versione che ne ho data: l’opposizione al desiderio è infatti fondata su esperienze traumatiche primarie, che hanno prodotto una specifica fragilità successiva nella struttura mentale. Il conflitto diventa perciò il segnale di un deficit prodotto da esperienze traumatiche, del tutto simile allo stato di collasso mentale del traumatizzato e al suo successivo inconsapevole tentativo di rifare la scena traumatica come regista.
La mancanza originaria, o deficit, può essere paragonata ad un equipaggiamento gravemente difettoso e per il quale non si è ancora trovato alcun rimedio.
Il rimedio al "difetto di equipaggiamento" dovrebbe fornire una riparazione a uno stato primario dove chi cura il bambino non ha offerto un alimento caratterizzato da comprensione e partecipazione affettiva sufficiente per ammortizzare le angosce elementari che lo stato di dipendenza e di impotenza infantile comporta. Il bambino non avrebbe così "appreso" a vivere queste angosce senza esserne travolto. Il rimedio ovvero la riparazione consisterebbe allora nel fornire a posteriori una esperienza di comprensione empatica.
Personalmente, penso che la "strana" opposizione a legittimi desideri di benessere nei nostri pazienti derivi da esperienze di gravi angosce o addirittura da situazioni traumatiche che nel passato hanno perturbato gravemente il progetto, non necessariamente cosciente, di liberazione da uno stato di malessere. Ne è così nata la "stranezza" caratterizzata dal sentirci impediti di abbandonare uno stato di disagio e di avviarci quindi verso una meta felice, perché questo percorso risulta inconsciamente associato a sofferenze traumatiche o ad antichi vissuti mortiferi.
Nella mia prassi utilizzo due coordinate per l’individuazione dei difetti originari, dove la prima è introduttiva alla seconda.
La prima si può desumere da un comportamento in analisi che è in modo evidente dannoso per lo sviluppo del lavoro analitico e che, in aggiunta, non lascia spazio a tentativi di elaborazione del suo significato. Può essere per esempio una ripetitività significativa nell’assenza alle sedute o una particolare opposività alla libera associazione o un cronico atteggiamento concorrenziale con l’analista. Dobbiamo concludere che siamo messi di fronte ad un settore della sua attività mentale rispetto alla quale c’è una porta chiusa e un cartello con la scritta "non entrare".
La seconda coordinata è il racconto del sogno dove prima o poi comparirà qualche elemento bizzarro o confuso, ma alcune volte del tutto chiaro, sia pur non collegato con l’orizzonte di senso già costruito, che si rivelerà la chiave di volta della "porta" che precedentemente ci risultava chiusa.
In conclusione non vedo conflittualità tra la teoria del conflitto e la teoria del deficit nella versione che ne ho data: l’opposizione al desiderio è infatti fondata su esperienze traumatiche primarie, che hanno prodotto una specifica fragilità successiva nella struttura mentale. Il conflitto diventa perciò il segnale di un deficit prodotto da esperienze traumatiche, del tutto simile allo stato di collasso mentale del traumatizzato e al suo successivo inconsapevole tentativo di rifare la scena traumatica come regista.
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