Il giusto confine


Qual è il giusto confine tra resilienza e compiacenza?
Il giusto confine
Resilienza: "In psicologia, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà."

Compiacenza: "Rispetto ostentato delle convenzioni sociali o dell'altrui volontà"; "Desiderio di compiacere ad altri; condiscendenza"

Due concetti molto distanti.

Da un lato la splendida capacità di essere resiliente, accettando in modo attivo le sfortunate ed inevitabili circostanze della vita e di mettere in atto risorse per il superamento di tali circostanze; dall’altro la compiacenza, che spesso porta a scelte che rispondono alla logica del "quieto vivere" e all’accettazione passiva di circostanze che non abbiamo la forza di affrontare.

Nel caso in cui queste circostanze avverse o difficili fossero rappresentate non da eventi tramautici, ma ad esempio da relazioni che non funzionano (personali o lavorative), ho un dubbio:

La troppa resilienza potrebbe scivolare nella compiacenza? La capacità di assorbire costantemente "l’urto della vita" rischia di generare una forma di compiacenza rispetto ad alcune situazioni relazionali? C’è il rischio che la mia resilienza lasci uno spazio all’altro che instauri alla lunga squilibri e prevaricazioni di cui alla lunga non sarò più consapevole?

Quelle volte in cui diciamo "Va tutto bene" in momenti in cui non va affatto bene, è perchè stiamo reagendo in modo positivo e sappiamo dento di noi che in qualche modo risolveremo la questione, oppure stiamo facendo finta di nulla sperando che le cose si risolvano da sole e non facciamo emergere il problema "per quieto vivere"?

Ogni punto di vista, studio, riflessione od esperienza personale sull’argomento saranno molto gradite...

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di Fabrizia Ingenito

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