Il lavoro in TeamWork nella progettazione architettonica


Qual è lo stato dell'arte dell'evoluzione verso la progettazione in TeamWork nel nostro paese? L'italia riesce ad affrontare le sfide che il mercato gli presenta oggi?
Il lavoro in TeamWork nella progettazione architettonica

Molte volte mi chiedo quale sia veramente lo stato dell'arte della progettazione "condivisa" nel nostro Paese. Riusciremo ad affrontare le sfide che il mercato nazionale e, soprattutto, internazionale ci pongono innanzi a noi?

Vedo il tutto da un osservatorio privilegiato, ovvero il "ricco e operoso" Nord-Est d'Italia, ma sempre troppo defilato e ancora non sufficientemente strutturato per agire e operare in TeamWork.

Cosa significa operare e lavorare in TeamWork? Perché continuiamo ad usare ed abusare di termini di lingua anglosassone?

Io penso che al di là del termine usato, e probabilmente abusato, la realtà nella quale tutti noi architetti e ingegneri operiamo, ancora ci condanna a vivere, o meglio sopravvivere, in una situazione lavorativa precaria, micron e che minimamente non abbiamo neppure idea delle sfide che il mercato ci pone oggi dinanzi a noi. Ad esempio, senza ora scomodare esempi eclatanti, prendiamo in considerazione le prospettive di lavoro e commesse del nostro studio. Si parla di pianificazione territoriali in Oman, di strutture universitarie in capitali di nazioni dell'Africa centrale per concludere con una nuova struttura ospedaliera per la città di Lahore, in Pakistan.

Siamo solamente all'inizio di tali lavorazioni, ma io mi chiedo semplicemente come è mai possibile affrontare tali progettazioni complesse e articolate senza un lavoro di squadra?

Ecco, io penso che il lavoro in TeamWork sia innanzitutto in primis una forma mentale di ri-organizzazione del proprio operare e modo di lavorare. Troppo spesso noi architetti siamo rimasti confinati nei nostri studi professionali, senza una men che minima pianificazione del nostro presente per essere in grado di affrontare il futuro del nostro lavoro.

Ora tale tempo è scaduto e se tutti noi vorremo vivere una seconda parte di vita professionale dignitosa, non solo economicamente ma anche professionalmente, dovremo "cambiare pelle" ed evolvere verso una progettazione condivisa e partecipata.

Tale è la complessità delle opere che si andranno a progettare che saremo costretti a mutare il nostro modo di pensare e agire. Nell’attuale scenario di cambiamento dei processi che caratterizzano la cultura del costruire non solo edifici, ma anche città e territori, è necessario un serio ripensamento delle pratiche tradizionali di progetto e del rapporto tra teorie e prassi, forse uno dei temi più discussi negli ultimi due secoli di cultura architettonica. Sono ormai note le direzioni entro cui è più che mai necessario operare: ci troviamo di fronte a una realtà che non ammette sprechi, che alla individualità contrappone la molteplicità delle relazioni, che richiede dialogo multidisciplinare e partecipazione attiva. In questo quadro l’architetto è chiamato a ripensare al progetto come elemento in continua evoluzione che si occupa dell’ambiente, dello spazio ma anche delle persone e dei loro bisogni quotidiani, con l’obiettivo prioritario di tornare a ‘progettare per il mondo reale’ e per quella ‘pubblica felicità’ di cui parla Ludovico Muratori.

Come dice Umberto Eco, l’architetto contemporaneo è infatti “continuamente obbligato a essere qualcos’altro da sé stesso, costretto a diventare sociologo, politologo, psicologo, antropologo, semiologo, costretto a trovare modi che mettano in forma sistemi di esigenze su cui non ha potere".

L’architettura, oggi, ci impone di pensare a un modello culturale e operativo in cui si riscoprono le diversità pur nella piena consapevolezza della validità di riferimento a un campo allargato di possibilità cui attingere, a strumenti di governo prima non pensabili, un modello che sappia fare propri i caratteri dei luoghi, dell’ambiente, delle società e delle culture secondo un programma austero che guardi alle risorse come un patrimonio finito e di cui avere cura, e che guardi all’edificio come un oggetto resiliente, trasformabile, rigenerabile. Ciò che rende possibile una tale pratica è l’idea che il progetto sia espressione di una coerente realizzabilità tecnica e che non dimentichi gli originari caratteri dell’attività costruttiva. La cultura digitale attribuisce un valore trasformativo profondo all’attività progettuale facilitando il governo dei processi decisionali, dinamici e complessi, che la caratterizzano e riducendo le distanze che separano la pratica del costruire dai fondamenti teorici che stanno alla radice del progetto.

La necessaria anticipazione di molti contenuti del progetto, dal livello definitivo a quello della fattibilità tecnico-economica, è resa possibile proprio dall’evoluzione degli strumenti di modellazione informativa tradizionali verso strumenti in grado di offrire simulazioni che coinvolgono sin dall’inizio tutti gli operatori del processo, compresi i potenziali utenti.

 

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di arch Maurizio Parolari

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