Il mutuo di scopo e il problema della clausola di destinazione
Il mutuo di scopo. Il problema della clausola di destinazione. Ipotesi di nullità della causa. Violazione della clausola di destinazione. Il debitore non deve rimborsare né gli interessi né il capitale. Figura particolare del mutuo fondiario: ulteriore ipotesi di nullità.
La figura del mutuo di scopo è peculiare e non necessariamente riconducibile al classico contratto di mutuo.
La più accreditata dottrina [1] ritiene che «il mutuo di scopo costituisca la fattispecie più ricorrente tra (quando non venga addirittura identificato con) i negozi di finanziamento, ovvero secondo l’accezione dominante tra i contratti di credito che sono rivolti a creare una disponibilità di capitali per un’attività in cui l’utilizzazione sia vincolata». Dunque, la figura del mutuo di scopo non può essere ridotta ed assimilata al solo contratto di mutuo disciplinato dal codice civile, ma anche a tutte le forme erogative di finanziamento, pure se formalmente diverse.
La teoria tradizionale, che vede il suo migliore esponente nel giurista Baccigalupi, sostiene la tesi secondo cui «nei contratti di finanziamento vanno ricompresi quei contratti di credito nei quali la considerazione dell’impiego delle somme trasferite, da motivo estraneo alla struttura del negozio, entra a far parte del regolamento contrattuale, venendo a configurarsi come condizione o come obbligazione di destinazione imposta, a differenza di quanto avviene nei contratti di credito e, più in particolare, nel mutuo, in cui manca qualsiasi vincolo di destinazione della somma mutuata ed il mutuante resta indifferente ai motivi per cui il contratto è stato stipulato» [2].
È stato scritto: «nella prospettiva di accrescere il patrimonio del debitore e quindi aumentare la garanzia di restituzione (scopo di garanzia) o per riservare al creditore un’ingerenza nella gestione dei beni acquistati o costruiti con l’impiego delle disponibilità ricevute (scopo di gestione), si riscontrano nella pratica commerciale ipotesi in cui il finanziatore inserisce nel contratto un obbligo di reimpiego che si scinde, in questa visione, in un contenuto negativo di non fare (utilizzando diversamente il bene prestato) ed in uno positivo di fare, non lasciando inattivo il capitale ricevuto ed utilizzando la somma con la diligenza richiesta nell’adempimento delle obbligazioni. La clausola di destinazione opera rafforzando la corrispettività del negozio dando luogo, in ipotesi di inadempimento, alla risoluzione del contratto» [3].
È evidente, dunque, che i finanziamenti del settore creditizio, nel rispetto dell’art. 41 della Carta Costituzionale, affinché siano polarizzati per sostenere l’attività economica privata, perché essa si espleti nel segno dell’utilità sociale, possono essere concessi solo e quando l’istituto erogatore abbia il controllo della clausola di destinazione.
Da qui la costruzione giurisprudenziale della consensualità e non della realità del mutuo di scopo, giacché in tale figura l’accento non cade sulla consegna della res, bensì sul consenso che tra le parti si forma; in modo particolare, sulla destinazione cui l’investimento ed il sotteso prestito sono finalizzati. In una famosa sentenza la Corte Suprema aveva così descritto la fattispecie: «i contratti di mutuo di scopo o di destinazione, preordinati per legge o per volontà delle parti al perseguimento di determinate finalità, si diversificano dallo schema tipico di negozi di mutuo, oltre che per il modo di perfezionamento in quanto hanno natura consensuale e non reale, anche sotto il profilo strutturale, perché il beneficiario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata ed a corrispondere i relativi interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto, compiendo gli atti o svolgendo l’attività programmata» [4].
Dunque, l’aspetto dirimente rispetto a qualsiasi altra figura tipica di contratti bancari, nel mutuo o nel finanziamento di scopo, è costituito dalla clausola di destinazione, cui la corresponsione è preordinata; tutti gli altri momenti sono secondari se non ininfluenti.
La somma, quando viene erogata, pur essendo nella disponibilità giuridica e materiale del beneficiato, non sfugge al controllo dell’istituto finanziatore.
Al riguardo si è molte volte espresso l’interprete, fissando i criteri di identificazione di tale peculiare figura: “Il mutuo di scopo risponde alla funzione di procurare al mutuatario i mezzi economici destinati al raggiungimento di una determinata finalità, comune al finanziatore, la quale, integrando la struttura del negozio, ne amplia la causa rispetto alla sua normale consistenza, sia in relazione al profilo strutturale, perché il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo concordato, mediante l'attuazione in concreto del programma negoziale, sia in relazione al profilo funzionale, perché nel sinallagma assume rilievo essenziale proprio l'impegno del mutuatario a realizzare la prestazione attuativa. La destinazione delle somme mutuate alla finalità programmata assurge pertanto a componente imprescindibile del regolamento di interessi concordato, incidendo sulla causa del contratto fino a coinvolgere direttamente l'interesse dell'istituto finanziatore, ed è perciò l'impegno del mutuatario a realizzare tale destinazione che assume rilevanza corrispettiva, non essendo invece indispensabile che il richiamato interesse del finanziatore sia bilanciato in termini sinallagmatici, oltre che con la corresponsione della somma mutuata, anche mediante il riconoscimento di un tasso di interesse agevolato al mutuatario” [5].
Ancora: “In tema di mutuo di scopo, con esso il mutuatario assume espressamente lo specifico obbligo, nei confronti del mutuante, di utilizzare la somma mutuata per una determinata finalità, e tale obbligazione diviene parte inscindibile del regolamento negoziale ed assume rilevanza causale nell'economia del contratto. Inoltre, il mutuo di scopo si caratterizza per l'interesse, diretto o indiretto, del mutuante alla specifica modalità di utilizzazione delle somme per un determinato scopo” [6].
“Il mutuo di scopo è preordinato alla realizzazione di una finalità convenzionale necessaria e, quindi, tale da contrassegnare la funzione del negozio, consistente nel procurare al mutuatario mezzi economici destinati a utilizzazione vincolata. Il negozio in parola, inoltre, si caratterizza per il fatto che una somma di danaro viene consegnata al mutuatario esclusivamente per raggiungere una determinata finalità la quale viene espressamente inserita nel sinallagma contrattuale. Il mutuo di scopo si differenzia, dunque, dallo schema tipico del contratto di mutuo sia sotto il profilo strutturale, poiché il sovvenuto si obbliga non solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto con l'attuazione in concreto dell'attività programmata, sia sotto il profilo causale, giacché nel sinallagma negoziale quest'ultima prestazione assume rilievo essenziale in corrispettività dell'attribuzione della somma erogata” [7].
Se si esamina, dunque, una figura tipica di finanziamento, di norma esso è preordinato alla realizzazione di un programma di investimento (si immagini l’acquisto di un immobile industriale). In esso si statuisce, normalmente, che l’istituto di credito può procedere alla risoluzione di diritto del contratto qualora le somme concesse non siano state utilizzate per le modalità previste. Tanto è vero che conseguenza della risoluzione contrattuale è la decadenza dal beneficio del termine: l’istituto avrà diritto di esigere (nel caso in cui si verifichino) l’immediato e totale rimborso anticipato del suo credito, con le spese e gli interessi contrattuali.
Quindi, la prospettazione contrattuale qualifica un diritto di ingerenza e di controllo, in capo all’istituto erogatore, tipico della figura.
Naturalmente tali premesse hanno una palese ricaduta anche nell’aspetto patologico del negozio. Infatti, nel caso in cui il programma di investimenti, per il quale il finanziamento è stato destinato (clausola di destinazione), non sia realizzato, opera la risoluzione ipso iure, con conseguente restituzione dell’importo elargito.
Si tratta di un canone ormai acclarato. Più volte, anche molto di recente, la Suprema Corte si è espressa al riguardo: “Nel mutuo di scopo, poiché il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata, con i relativi interessi, ma anche a realizzare l'attività programmata, siffatto impegno assume rilievo causale nell'economia del contratto, con conseguente nullità in ipotesi di effettiva mancanza di causa” [8].
“Nel mutuo di scopo convenzionale si verifica una deviazione dal tipo contrattuale di cui all'art. 1813 c.c. che si configura quando il mutuatario abbia assunto espressamente un obbligo nei confronti del mutuante, in ragione dell'interesse di quest'ultimo - diretto o indiretto - ad una specifica modalità di utilizzazione delle somme per un determinato scopo. Ne deriva che l'inosservanza della destinazione delle somme indicata nel mutuo rileva, in tali casi, ai fini della validità o meno del contratto stesso” [9].
La manifestazione tipica di una applicazione “alterata” del contratto de quo è la discrasia fra il suo nomen iuris e l’effettivo utilizzo che si fa degli importi concessi. In altri termini, capita sovente che un finanziamento finalizzato con un connesso piano di investimento, sia, in realtà, utilizzato per ripianare precedenti esposizioni debitorie, nei confronti della banca mutuante o di altri istituti.
In tali casi è evidente come il mutuo non persegua la finalità cui era preordinato. Nella pratica la banca, onde concedere alla mutuataria di estinguere una precedente pendenza, deliberi una erogazione senza, poi, esercitare i controlli necessari e contrattualmente previsti nell’attuazione del detto programma di investimento.
Nella specie si parla di patto di distrazione, momento patologico tipico del mutuo di scopo, che si identifica nella mancata realizzazione della clausola di destinazione. Esso consiste nell’accordo con il quale le parti fanno un diverso utilizzo della provvista posta a disposizione della banca; quest’ultima, dal canto suo, non esercita il controllo necessario, teso ad evitare il mancato rispetto della clausola di destinazione.
Infatti: “In tema di mutuo industriale (nel nostro caso finanziamento), sussistendo i requisiti necessari a qualificare il contratto quale mutuo di scopo, vale a dire i requisiti soggettivi e la presenza della clausola di destinazione, qualora le parti non abbiano inteso realizzare il relativo progetto, il contratto è nullo per mancanza di causa negoziale ai sensi dell’art. 1418 c.c.” [10].
Ancora la Suprema Corte, nel 2019 ha definitivamente certificato la valenza dei principi giuridici fin qui delineati, asserendo che: “La sentenza impugnata ha chiaramente espresso la ratio decidendi della statuizione, vale a dire la deviazione della causa concreta del contratto da quella del mutuo di scopo, come dimostrato dal fatto che la mutuataria non aveva acquistato il cespite per cui era stato erogato il mutuo e che, come desumibile dall'estratto conto della debitrice, il relativo importo era stato concretamente utilizzato per estinguere pregresse esposizioni debitorie” [11].
In verità la decisione assunta in sede di legittimità ha degli autorevoli precedenti, proprio nelle determinazioni della Suprema Corte: “Nei soli mutui di scopo, tutte le volte in cui le somme somministrate al cliente non vengono impiegate per lo scopo concordato, ma per coprire o ripianare precedenti esposizioni debitorie contratte con il medesimo istituto di credito erogante il mutuo, questo sarà affetto da nullità e il debitore, non dovrà più rimborsare le somme avute in prestito” [12].
“Il mutuo di scopo è nullo, e la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, quando sia stato stipulato con l'accordo, tra l'istituto di credito e il mutuatario, della utilizzazione della provvista per una diversa finalità, ivi compresa quella di estinguere debiti in precedenza contratti dal mutuatario verso lo stesso istituto mutuante. Pertanto, la funzione del mutuo è quella di procurare al mutuatario i mezzi economici da destinare a quella utilizzazione prevista e vincolata dal contratto di mutuo. Conseguentemente, è esclusa ogni diversa volontà di destinazione, compresa quella di estinzione di pregresse passività del mutuatario” [13].
Ciò significa, dunque, che in tali evenienze l’istituto di credito non ha diritto alla restituzione non solo degli interessi connessi al finanziamento, ma anche del capitale erogato. Trova, quindi, piena attuazione al principio in virtù del quale, in caso di nullità, “il debitore, non dovrà più rimborsare le somme avute in prestito”.
La Prima Sezione civile Corte Suprema di Cassazione, con la recentissima Ordinanza del 10 febbraio 2020 n. 3024, seguendo il solco già tracciato con la precedente pronuncia del 5 agosto 2019 n. 20896 (v.https://www.bancheepoteri.it/2019/09/03/ancora-sul-mutuo-stipulato-per-ripianare-unprecedente-passivo-di-conto-corrente/), seguita poi dalla Terza Sezione con la pronuncia del 30 agosto 2019 n. 21850, ha nuovamente rigettato il ricorso della Banca che, in un’ipotesi di mutuo fondiario stipulato per estinguere precedenti passività di conto corrente, si era vista negare dal Tribunale fallimentare il privilegio ipotecario.
In verità, la Suprema Corte di Cassazione, ancor più di recente [14], pur riferendosi a mutui fondiari, ha ritenuto operante, in caso di utilizzo dei fondi per l’estinzione di debiti pregressi, la medesima sanzione: la nullità del mutuo. Gli Ermellini, infatti, hanno affermato testualmente che “la stipulazione del «mutuo fondiario» viene propriamente assunta come mera forma, strutturalmente idonea a realizzare la funzione «fraudolenta» dell’operazione, quale quella di «rendere» contestuale un’ipoteca per un credito che era preesistente”.
Risulta decisiva la constatazione che la disposizione dell’art. 38 TUB, comma 2 stabilisce la regola per cui l’ammontare del finanziamento è “determinato […] in rapporto al valore dei beni ipotecati”. Ciò significa, all’evidenza, che nel mutuo fondiario l’ammontare del credito dipende – e non può che dipendere – dal valore che possiede l’immobile dato in ipoteca. Proprio sulla base di questa disposizione la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che il “mutuo fondiario è operazione che si connota per concentrare la copertura del rischio di rientro dell’erogato sul solo immobile “mobilizzato” e contestualmente iscritto in ipoteca di primo grado” [15].
Perciò, il mutuo fondiario possiede requisiti identificativi diversi da quelli dell’ordinario mutuo ipotecario ed è inteso a porre in essere un’operazione diversa e con effetti (anche) distinti da quelli propri dell’ordinario mutuo. In altri termini, “nel mutuo fondiario è proprio la garanzia costituita dall’ipoteca a conformare il credito (merito e quantità): così dando vita a una speciale tipologia di operazione, che il sistema vigente ha inteso proteggere in modo peculiare (con l’assegnazione di forti vantaggi disciplinari), in ragione della rischiosità sua intrinseca. Ne segue che un mutuo non può, nel corso di svolgimento del relativo rapporto, diventare fondiario. Nel caso di ipoteca posta a servizio di un preesistente mutuo, quest’ultimo rimane semplicemente un ordinario mutuo”.
Da ciò discende l’affermazione del principio secondo cui in siffatte ipotesi va – quanto meno – escluso dal privilegio ipotecario il mutuo fondiario destinato ad estinguere debiti pregressi.
Partendo da tali presupposti, la Suprema Corte ha chiarito che “nel mutuo fondiario è proprio la garanzia dell’ipoteca a conformare il credito (merito e quantità): così dando vita a una speciale tipologia di operazione, che il sistema vigente ha inteso proteggere in modo peculiare (con l’assegnazione di forti vantaggi disciplinari), in ragione della rischiosità sua intrinseca […] Ne segue che un mutuo non può, nel corso di svolgimento del relativo rapporto, diventare fondiario. Nel caso di ipoteca posta a servizio di un preesistente mutuo, quest’ultimo rimane semplicemente un ordinario mutuo”.
La Corte, invero, afferma che lo scopo dell’operazione di costituzione della garanzia ipotecaria, ovvero la trasformazione di un debito preesistente da chirografario a privilegiato attraverso l’apparente estinzione della passività preesistente e la contestuale creazione di una “nuova” passività privilegiata, deve essere revocata.
In questa prospettiva, infatti, la stipulazione del mutuo fondiario viene propriamente assunta come mera forma, strutturalmente idonea a realizzare la funzione fraudolenta dell’operazione, quale quella di rendere contestuale un’ipoteca per un credito che era preesistente.
La questione concernente la validità dei mutui concessi dalle Banche a copertura di precedenti passivi di conto corrente, aventi lo scopo precipuo di attribuire natura di credito ipotecario al precedente credito chirografario era stata, peraltro, già affrontata nel 2019[16] allorquando la stessa Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione aveva asserito che il mutuo stipulato per ripianare il passivo dovesse essere dichiarato nullo.
In conclusione, si può affermare che la garanzia ipotecaria non può essere validamente costituita in un momento successivo rispetto all’erogazione del mutuo in quanto, ai sensi della normativa bancaria oggi vigente, il mutuo fondiario è tale proprio perché garantito da ipoteca e le somme erogate dalla banca non possono che essere proporzionali al valore dell’immobile concesso a garanzia. Laddove venga, invece, stipulato un nuovo mutuo con il privilegio della garanzia ipotecaria volto a ripianare un sussistente passivo di conto corrente, anche quest’ultimo contratto di mutuo risulta intrinsecamente viziato in quanto manca l’elemento strutturale della traditio. L’operazione, in conclusione, deve considerarsi nulla.
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[1] M. Fragali, Enciclopedia del diritto, vol. XVII, pag. 604, voce Finanziamento [diritto privato], Milano 1968.
[2] M. Baccigalupi, Note sul contatto di finanziamento, in Diritto ed economia, 1955, pag. 111 e segg.
[3] In Digesto Discipline Privatistiche, sezione civile, vol. XI, voce Mutuo di scopo, pag. 560 e segg., a cura di M. Rispoli Farina, Torino 1994.
[4] Cass. civ., sentenza n° 3752/1981.
[5] Cass. civ., Sez. I, ord., 18/06/2018, n° 15929.
[6] Corte d'Appello Napoli, Sez. II, sent. 05/06/2018.
[7] Tribunale Firenze, sez. III, 30/03/2016.
[8] Cass. civ., Sez. I, ord., 12/12/2017, n° 29804.
[9] Cass. civ., Sez. I, ord., 19/10/2017, n° 24699.
[10] Cass. civ., sent., n° 317/2001.
[11] Cass. civ., sent., n° 26770/2019.
[12] Cass. civ., sez. I, ord., 19/10/2017, n° 24699, cit.
[13] Cass. civ., sez. I, ord., 19/10/2017, n° 24699, cit.
[14] Cass. civ., sez. I, ord., 10/02/2020, n° 3024.
[15] Cass. civ., 18 maggio 2018, n° 11201.
[16] Cass. civ., sez I, ord., 14/06/2019, n° 16081.
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