Il primo colloquio
Cosa aspettarsi quando si aspetta. Pensieri e fantasie sul colloquio psicologico
Navigando in rete si incontrano molti articoli sul Primo colloquio e sulle strategie utilizzate dal clinico per recuperare le informazioni necessarie per costruire un quadro quanto più possibile chiaro ed ampio del problema presentato dalla persona che incontra.
Quello che vi propongo, invece, è una riflessione sugli scenari e sulle immagini che attraversano la mente di chi decide di consultare uno psicoterapeuta, sulle fantasie di chi, pur soffrendo per qualcosa, mette sui piatti di una immaginaria bilancia il suo dolore psichico e l’imbarazzo del chiedere aiuto per una difficoltà la cui soluzione non è medica.
C’è, infatti, ben poca esitazione nel rivolgersi ad un dottore-in-camice-bianco quando si ha un dolore o si teme di avere un problema. Persino andare dal nutrizionista causa meno apprensione che recarsi dallo psicologo (strizzacervelli-meglio un mago-machimelohafattofare).
Sono una fanatica degli stereotipi sul mestiere e ne ho sentite tante ed altrettante me ne sono state rivolte. C’è stato chi pensava capissi ogni cosa da come stesse seduto sulla sedia, chi credeva risolutamente dovesse parlare solo di sogni, chi solo del rapporto con la madre, chi pensava non dovesse parlare affatto. Avevano, in una parola, paura!
E spesso, per questo, si rimane dove si è (e non ci vuole certo uno specialista per dirvi che quell’immobilità è parte del problema).
La prima domanda che il clinico pone alla persona che ha di fronte è semplice, senza misteri e quanto mai banale: "Per quale motivo ci incontriamo oggi?". Da qui il racconto può prendere avvio e condurre ovunque la persona desideri. Si potrà parlare di sintomi quanto raccontare di sè e della propria storia, descrivere cosa causa sofferenza o cosa ci si aspetta e si desidera.
Un primo incontro può, in alcuni casi, finire lì, oppure dare inizio ad un percorso: può segnare una strada.
Proverò a spiegarmi meglio costruendo una metafora, provate a seguirmi.
Immaginate un colloquio (sia esso il primo o il trentesimo) come una passeggiata in un parco fiorito. C’è un sentiero che attraversa le aiuole del giardino. Il luogo vi è familiare ma non ricordate l’ultima volta che ci siete stati e di sicuro, non avete mai avuto il tempo di visitarlo per intero, tanto è ampio. Davanti ad alcune piante vi piacerà fermarvi del tempo per sentire se hanno un odore, per vedere i colori, per capirne la distribuzione ed osservarne la bellezza. Passando vicino ad un roseto, magari si urterà un ramo spinoso, di quelli che fuoriescono dal disegno dell’arbusto, che vi ferirà ma non questo, mi auguro, vi farà "detestare tutte le rose". Certo non le si vorrà ammirare in quel momento e si aspetterà un po’ prima di ritornarci. Durante la camminata noterete che alcune zone saranno in ombra e non vi attrarranno come quelle soleggiate e tiepide, le terrete a mente e starà a voi decidere se e con che tempi frequentarle. Certi giorni, in quel giardino, non vedrete l’ora di tornare e la passeggiata sarà serena, rinfrancante mentre altri vorrete chiudere il cancello a doppia mandata o chiamare qualcuno perché si occupi di estirpare ogni cosa.
Saranno queste, le emozioni, a dirvi che quello è il vostro giardino.
Quello che vi propongo, invece, è una riflessione sugli scenari e sulle immagini che attraversano la mente di chi decide di consultare uno psicoterapeuta, sulle fantasie di chi, pur soffrendo per qualcosa, mette sui piatti di una immaginaria bilancia il suo dolore psichico e l’imbarazzo del chiedere aiuto per una difficoltà la cui soluzione non è medica.
C’è, infatti, ben poca esitazione nel rivolgersi ad un dottore-in-camice-bianco quando si ha un dolore o si teme di avere un problema. Persino andare dal nutrizionista causa meno apprensione che recarsi dallo psicologo (strizzacervelli-meglio un mago-machimelohafattofare).
Sono una fanatica degli stereotipi sul mestiere e ne ho sentite tante ed altrettante me ne sono state rivolte. C’è stato chi pensava capissi ogni cosa da come stesse seduto sulla sedia, chi credeva risolutamente dovesse parlare solo di sogni, chi solo del rapporto con la madre, chi pensava non dovesse parlare affatto. Avevano, in una parola, paura!
E spesso, per questo, si rimane dove si è (e non ci vuole certo uno specialista per dirvi che quell’immobilità è parte del problema).
La prima domanda che il clinico pone alla persona che ha di fronte è semplice, senza misteri e quanto mai banale: "Per quale motivo ci incontriamo oggi?". Da qui il racconto può prendere avvio e condurre ovunque la persona desideri. Si potrà parlare di sintomi quanto raccontare di sè e della propria storia, descrivere cosa causa sofferenza o cosa ci si aspetta e si desidera.
Un primo incontro può, in alcuni casi, finire lì, oppure dare inizio ad un percorso: può segnare una strada.
Proverò a spiegarmi meglio costruendo una metafora, provate a seguirmi.
Immaginate un colloquio (sia esso il primo o il trentesimo) come una passeggiata in un parco fiorito. C’è un sentiero che attraversa le aiuole del giardino. Il luogo vi è familiare ma non ricordate l’ultima volta che ci siete stati e di sicuro, non avete mai avuto il tempo di visitarlo per intero, tanto è ampio. Davanti ad alcune piante vi piacerà fermarvi del tempo per sentire se hanno un odore, per vedere i colori, per capirne la distribuzione ed osservarne la bellezza. Passando vicino ad un roseto, magari si urterà un ramo spinoso, di quelli che fuoriescono dal disegno dell’arbusto, che vi ferirà ma non questo, mi auguro, vi farà "detestare tutte le rose". Certo non le si vorrà ammirare in quel momento e si aspetterà un po’ prima di ritornarci. Durante la camminata noterete che alcune zone saranno in ombra e non vi attrarranno come quelle soleggiate e tiepide, le terrete a mente e starà a voi decidere se e con che tempi frequentarle. Certi giorni, in quel giardino, non vedrete l’ora di tornare e la passeggiata sarà serena, rinfrancante mentre altri vorrete chiudere il cancello a doppia mandata o chiamare qualcuno perché si occupi di estirpare ogni cosa.
Saranno queste, le emozioni, a dirvi che quello è il vostro giardino.
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