Intendiamo quello che diciamo?
L'Analisi Transazionale smaschera la comunicazione di facciata e fa riflettere sul vero significato di ciò che viene detto e come viene detto

Negli anni ‘50 le teorie della comunicazione ebbero forti sviluppi. Tra questi, uno psichiatra americano fece uscire nel 1964 un libro di divulgazione scientifica che, traducendo gli scambi tra terapeuta e paziente in modelli linguistici propri delle teorie psicologiche strutturate, aveva come scopo quello di rendere sistematico il riconoscimento di un certo comportamento. Eric Berne scrisse "A che gioco giochiamo" e il pubblico se ne appassionò tanto da rendere il libro un best-seller. Gli scambi tra individui furono chiamati Transazioni, da cui Analisi Transazionale.
L’AT era diventata materia di divulgazione che, grazie alla teoria proposta sullo sviluppo delle comunicazioni relazionali, mostrava i canali attraverso cui si comunica: alle volte in modo efficace ma altre volte in modo incorretto e più o meno volutamente manipolatorio. Questo modo fu chiamato il "gioco psicologico", definito come "una serie di transazioni ulteriori ripetitive a cui fa seguito un colpo di scena con uno scambio di ruoli, un senso di confusione accompagnato da uno stato d’animo spiacevole come tornaconto finale, in termini di rinforzo di convinzioni negative su di sé, sugli altri, sul mondo".
Uno dei giochi più conosciuto è il Triangolo Drammatico, dove tre ruoli si avvicendano: la vittima, il persecutore e il salvatore. Nella relazione, la vittima non ha un ruolo passivo, ma attivo, per agganciare l’altro ed iniziare il siparietto o proseguirlo e rincarare la dose, cercando di manipolarlo. Il persecutore fa la stessa cosa, ma con un ruolo più aggressivo, non necessariamente dominante. Il salvatore non salva nessuno, piuttosto si fa carico di un ruolo anch’esso - che in prima battuta serve al salvatore medesimo. I ruoli poi si scambiano. Ad esempio: a cena, la moglie che litiga con la figlia, il marito che cerca di mediare. La scena inizia con la moglie che dice con toni accesi di mettere a posto quella benedetta stanza (persecutore). La figlia che brontola e risponde male (vittima) e rincara la dose alzandosi da tavola senza neanche portare il piatto nel lavello (vittima o persecutrice?). Il marito che nel tentativo di placare la discussione, sparecchia, e apparentemente aiuta consolando la moglie ed andando in camera dalla figlia ad aiutarla a rimettere a posto (rimetterà a posto da solo). Il giorno dopo potrà essere il marito che discute con la moglie e la figlia che tenterà di fare da paciere.
Ma a cosa servono questi giochi di ruolo? Tendenzialmente sono dei passatempi distorti, dei modi di "incomunicazione" senza la finalità di passare un messaggio. Possono derivare da vecchi screzi, dall’umore, da un senso di rivalsa, da un senso di inadeguatezza. Nel salvatore ci può essere il desiderio di avere la sensazione di essere di un qualche valore, necessario per ritrovare la serenità. Qualsiasi cosa, tranne una vera comunicazione.
Ma a chi non capitano siparietti di questo tipo? Il punto non sta tanto nell’essere sempre attenti a come si dicono le cose e a cosa si dicono, quanto a riconoscere quando siamo, più o meno volontariamente, manipolatori nelle nostre relazioni con l’altro e decidere se vogliamo continuare ad esserlo o cambiare qualcosa. E a riconoscere questo comportamento negli altri, per poter rispondere al vero messaggio e non a quello apparente. Nel caso della famiglia di cui sopra, allora, la madre potrebbe fare una domanda senza farsi trascinare dalla rabbia, la figlia potrebbe ostentare meno ostilità e il padre potrebbe dire quello che pensa, piuttosto che cercare di raccattare i cocci. Forse il litigio proseguirebbe, ma soltanto con una comunicazione più diretta si possono superare situazioni difficili ed ottenere rapporti relazionali più veri.
L’AT era diventata materia di divulgazione che, grazie alla teoria proposta sullo sviluppo delle comunicazioni relazionali, mostrava i canali attraverso cui si comunica: alle volte in modo efficace ma altre volte in modo incorretto e più o meno volutamente manipolatorio. Questo modo fu chiamato il "gioco psicologico", definito come "una serie di transazioni ulteriori ripetitive a cui fa seguito un colpo di scena con uno scambio di ruoli, un senso di confusione accompagnato da uno stato d’animo spiacevole come tornaconto finale, in termini di rinforzo di convinzioni negative su di sé, sugli altri, sul mondo".
Uno dei giochi più conosciuto è il Triangolo Drammatico, dove tre ruoli si avvicendano: la vittima, il persecutore e il salvatore. Nella relazione, la vittima non ha un ruolo passivo, ma attivo, per agganciare l’altro ed iniziare il siparietto o proseguirlo e rincarare la dose, cercando di manipolarlo. Il persecutore fa la stessa cosa, ma con un ruolo più aggressivo, non necessariamente dominante. Il salvatore non salva nessuno, piuttosto si fa carico di un ruolo anch’esso - che in prima battuta serve al salvatore medesimo. I ruoli poi si scambiano. Ad esempio: a cena, la moglie che litiga con la figlia, il marito che cerca di mediare. La scena inizia con la moglie che dice con toni accesi di mettere a posto quella benedetta stanza (persecutore). La figlia che brontola e risponde male (vittima) e rincara la dose alzandosi da tavola senza neanche portare il piatto nel lavello (vittima o persecutrice?). Il marito che nel tentativo di placare la discussione, sparecchia, e apparentemente aiuta consolando la moglie ed andando in camera dalla figlia ad aiutarla a rimettere a posto (rimetterà a posto da solo). Il giorno dopo potrà essere il marito che discute con la moglie e la figlia che tenterà di fare da paciere.
Ma a cosa servono questi giochi di ruolo? Tendenzialmente sono dei passatempi distorti, dei modi di "incomunicazione" senza la finalità di passare un messaggio. Possono derivare da vecchi screzi, dall’umore, da un senso di rivalsa, da un senso di inadeguatezza. Nel salvatore ci può essere il desiderio di avere la sensazione di essere di un qualche valore, necessario per ritrovare la serenità. Qualsiasi cosa, tranne una vera comunicazione.
Ma a chi non capitano siparietti di questo tipo? Il punto non sta tanto nell’essere sempre attenti a come si dicono le cose e a cosa si dicono, quanto a riconoscere quando siamo, più o meno volontariamente, manipolatori nelle nostre relazioni con l’altro e decidere se vogliamo continuare ad esserlo o cambiare qualcosa. E a riconoscere questo comportamento negli altri, per poter rispondere al vero messaggio e non a quello apparente. Nel caso della famiglia di cui sopra, allora, la madre potrebbe fare una domanda senza farsi trascinare dalla rabbia, la figlia potrebbe ostentare meno ostilità e il padre potrebbe dire quello che pensa, piuttosto che cercare di raccattare i cocci. Forse il litigio proseguirebbe, ma soltanto con una comunicazione più diretta si possono superare situazioni difficili ed ottenere rapporti relazionali più veri.
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