Internet durante il lavoro: dosiamone l'utilizzo
Sull’utilizzo “smodato” e per scopi personali della rete internet aziendale

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ci offre degli spunti interessanti rispetto alle conseguenze negative sul rapporto di lavoro che può provocare l’utilizzo smodato ed eccessivo della rete internet per scopi non connessi con le mansioni assegnate bensì per esigenze personali.
La Corte afferma che correttamente i giudici di merito al fine di stabilire la legittimità del licenziamento intimato, hanno posto in evidenza di trovarsi di fronte:
<<"ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell'accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)" e come tale condotta integri con evidenza un utilizzo indebito dello strumento aziendale non solo "reiterato" ma anche, e di conseguenza, "intenzionale". Sulla base di tali elementi, come della loro correlazione al "ruolo" di responsabilità che il ... ricopriva in azienda ("di controllore della qualità dei sinistri sul territorio nazionale" la Corte è infine pervenuta a ritenere legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo>> (Cass. 15.06.2017 n. 14862).
Nel caso specifico, un lavoratore era stato licenziato con effetto immediato (i.e. per giusta causa) per avere abusato della connessione a internet tramite il computer aziendale assegnatogli in dotazione. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento ed il Tribunale di Bologna ha accolto la sua domanda ritenendo illegittimo il licenziamento riconoscendogli però la sola tutela risarcitoria con conseguente condanna della Società a corrispondergli una indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione.
All’esito del reclamo, la Corte d’Appello ha riformato la sentenza di primo grado, ritenendo non applicabile la tutela risarcitoria, ma convertendo il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. In altri termini, la Corte d’Appello ha sancito che al lavoratore non spettasse l’indennità risarcitoria pari a 20 mensilità liquidata dal Giudice di primo grado, ma soltanto l’indennità sostitutiva del preavviso.
Ciò in quanto, pur ritenendo grave la condotta tenuta dal lavoratore anche alla luce del ruolo di Responsabile ricoperto, è stato ritenuto che i fatti contestati giustificassero sì il licenziamento, ma non per giusta causa, bensì con diritto al preavviso assumendo rilevanza: l’assenza di precedenti disciplinari, la non incidenza della condotta sull’attività professionale e l’esiguo danno sofferto dall’azienda.
La sentenza della Suprema Corte ribadisce inoltre un altro principio ossia che:
<<è controllo a distanza, ai sensi dell’art. 4 l. n. 300 del 1970, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, restando esclusa dal campo di applicazione della norma quella che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti (cfr. da ultimo Cass. n. 10955/2015)>>.
Difatti, il lavoratore ha sostenuto che nella sentenza d’appello non fosse stato correttamente applicato l’art. 4 L. n. 300/1970, così decretando l’illegittimità del controllo operato dal datore di lavoro sul computer a lui assegnato.
La censura mossa dal lavoratore però non è stata ritenuta accoglibile atteso che il controllo a distanza effettuato dal datore di lavoro non ha investito le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Più precisamente, la Suprema Corte ha confermato la correttezza del ragionamento logico-giuridico svolto dalla Corte d’Appello di Bologna, affermando che:
<<la possibilità di configurare, nella specie, una tale violazione (dell’art. 4 L. n. 300/1970: n.d.r.) è da ritenersi esclusa, sul rilievo che "l'azienda non ha analizzato quali siti" il G. "ha visitato durante la navigazione in internet, né la tipologia di dati che ha scaricato, né infine se li ha salvati sul p.c." (p. 9); e comunque è infondato, atteso che i dettagli del traffico, quali esclusivamente indicati nella lettera di contestazione disciplinare (data, ora, durata della connessione e importo del traffico), secondo l'accertamento compiuto sul punto dal giudice del merito, non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell'utente e di sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali, sessuali, rimanendo confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sé sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete.>>.
La Corte afferma che correttamente i giudici di merito al fine di stabilire la legittimità del licenziamento intimato, hanno posto in evidenza di trovarsi di fronte:
<<"ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell'accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)" e come tale condotta integri con evidenza un utilizzo indebito dello strumento aziendale non solo "reiterato" ma anche, e di conseguenza, "intenzionale". Sulla base di tali elementi, come della loro correlazione al "ruolo" di responsabilità che il ... ricopriva in azienda ("di controllore della qualità dei sinistri sul territorio nazionale" la Corte è infine pervenuta a ritenere legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo>> (Cass. 15.06.2017 n. 14862).
Nel caso specifico, un lavoratore era stato licenziato con effetto immediato (i.e. per giusta causa) per avere abusato della connessione a internet tramite il computer aziendale assegnatogli in dotazione. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento ed il Tribunale di Bologna ha accolto la sua domanda ritenendo illegittimo il licenziamento riconoscendogli però la sola tutela risarcitoria con conseguente condanna della Società a corrispondergli una indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione.
All’esito del reclamo, la Corte d’Appello ha riformato la sentenza di primo grado, ritenendo non applicabile la tutela risarcitoria, ma convertendo il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. In altri termini, la Corte d’Appello ha sancito che al lavoratore non spettasse l’indennità risarcitoria pari a 20 mensilità liquidata dal Giudice di primo grado, ma soltanto l’indennità sostitutiva del preavviso.
Ciò in quanto, pur ritenendo grave la condotta tenuta dal lavoratore anche alla luce del ruolo di Responsabile ricoperto, è stato ritenuto che i fatti contestati giustificassero sì il licenziamento, ma non per giusta causa, bensì con diritto al preavviso assumendo rilevanza: l’assenza di precedenti disciplinari, la non incidenza della condotta sull’attività professionale e l’esiguo danno sofferto dall’azienda.
La sentenza della Suprema Corte ribadisce inoltre un altro principio ossia che:
<<è controllo a distanza, ai sensi dell’art. 4 l. n. 300 del 1970, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, restando esclusa dal campo di applicazione della norma quella che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti (cfr. da ultimo Cass. n. 10955/2015)>>.
Difatti, il lavoratore ha sostenuto che nella sentenza d’appello non fosse stato correttamente applicato l’art. 4 L. n. 300/1970, così decretando l’illegittimità del controllo operato dal datore di lavoro sul computer a lui assegnato.
La censura mossa dal lavoratore però non è stata ritenuta accoglibile atteso che il controllo a distanza effettuato dal datore di lavoro non ha investito le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Più precisamente, la Suprema Corte ha confermato la correttezza del ragionamento logico-giuridico svolto dalla Corte d’Appello di Bologna, affermando che:
<<la possibilità di configurare, nella specie, una tale violazione (dell’art. 4 L. n. 300/1970: n.d.r.) è da ritenersi esclusa, sul rilievo che "l'azienda non ha analizzato quali siti" il G. "ha visitato durante la navigazione in internet, né la tipologia di dati che ha scaricato, né infine se li ha salvati sul p.c." (p. 9); e comunque è infondato, atteso che i dettagli del traffico, quali esclusivamente indicati nella lettera di contestazione disciplinare (data, ora, durata della connessione e importo del traffico), secondo l'accertamento compiuto sul punto dal giudice del merito, non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell'utente e di sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali, sessuali, rimanendo confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sé sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete.>>.
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