Iva e inadempimento della controparte
Fattispecie in cui si può recuperare l'Iva in caso di inadempimento della controparte commerciale senza dovere instaurare una procedura esecutiva

Uno dei problemi principali degli operatori commerciali consiste nel recuperare in modo rapido e semplice l’Iva indicata in fattura e versata all’erario, nel caso in cui la controparte commerciale risultasse inadempiente all’obbligo di versare il prezzo convenuto.
Di tale esigenza si è fatto solo parzialmente carico il legislatore con la legge finanziaria 2016, che è intervenuta per riconoscere espressamente la possibilità di emettere una nota di credito al fine di recuperare l’Iva in caso di risoluzione per inadempimento della controparte nei contratti a esecuzione continuata o periodica. Viceversa, per le altre ipotesi di mancato pagamento - in tutto o in parte - del prezzo pattuito, il recupero dell’Iva è condizionato all’esito negativo di una procedura esecutiva (esulano dal presente scritto gli aspetti relativi alle procedure esecutive). Quest’ultima condizione costituisce un adempimento defatigante e di dubbia compatibilità con la disciplina prevista dalla direttiva Iva (n. 112/2006), anche in ragione della circostanza che detta condizione non è richiesta, al ricorrere di determinati presupposti, ai fini della deducibilità della corrispondente perdita su crediti ai fini delle imposte dirette.
Per comprendere quanto sopra affermato si osserva che gli artt. 1, par. 2, e 73 della direttiva Iva sanciscono il principio secondo cui l’Iva è proporzionale al prezzo dei beni o servizi oggetto dell’operazione imponibile e che la base imponibile dell’imposta comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore di beni o al prestatore di servizi da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo.
L’art. 21, n. 1, lett. c) della suddetta direttiva prevede il principio che il soggetto passivo deve corrispondere l’Iva esposta in fattura.
Tuttavia, dopo l’emissione di quest’ultima, possono sopravvenire modificazioni della base imponibile o dell’imposta, dovute a una pluralità di ragioni diverse.
L’art. 90 della direttiva, pertanto, in attuazione del principio che la base imponibile è data dal corrispettivo realmente ricevuto, dispone che, in caso di "annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri". Tuttavia, continua la norma, "in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare" a quanto sopra rilevato.
I soggetti passivi hanno, dunque, il diritto a rettificare l’Iva dovuta nel caso in cui l’operazione venga meno, in quanto l’art. 90, par. 1, obbliga gli Stati membri a procedere alla riduzione della base imponibile ogniqualvolta, successivamente alla conclusione di un’operazione, il corrispettivo non venga totalmente o parzialmente percepito dal soggetto passivo.
La disposizione citata non precisa, tuttavia, le condizioni e gli obblighi che gli Stati membri possono prevedere affinché i soggetti passivi possano esercitare il diritto a rettificare in diminuzione l’Iva; detti Stati hanno quindi un potere discrezionale (i) in ordine alla previsione delle condizioni e delle formalità che i soggetti passivi devono adempiere al fine di usufruire del predetto diritto, nonché (ii) in merito alla possibilità di negare il diritto in questione in caso di mancato pagamento del prezzo.
Ciò non pregiudica, come sottolineato dalla Corte di Giustizia UE, «il carattere preciso e incondizionato dell’obbligo di ammettere la riduzione della base imponibile nei casi previsti» dall’art. 90, par. 1, che «soddisfa pertanto le condizioni per produrre un effetto diretto» nell’ordinamento interno degli Stati membri.
Ne consegue che i soggetti passivi possono far valere l’art. 90, par. 1 della direttiva direttamente dinanzi alle Autorità nazionali, per far valere il diritto alla riduzione della base imponibile Iva, nel caso in cui le condizioni e le formalità previste dagli Stati membri eccedano quanto necessario a dimostrare che il corrispettivo originariamente pattuito, in tutto o in parte, non è percepito.
Il legislatore nazionale, dal canto suo, con l’art. 26 del d.p.r. n. 633/1972 e successive modifiche e integrazioni, ha disciplinato le condizioni al ricorrere delle quali i soggetti passivi devono o possono procedere alla rettifica di fatture precedentemente emesse, qualora sopraggiungano eventi che determinino l’aumento o la diminuzione della base imponibile o dell’imposta.
A differenza delle variazioni in aumento, per le quali l’emissione di una fattura integrativa è obbligatoria ai sensi del primo comma dell’art. 26 citato, per le rettifiche in diminuzione dell’Iva è stata riconosciuta la facoltà, esercitabile limitatamente alle ipotesi previste dal legislatore, di detrarre l’Iva corrispondente alla variazione in diminuzione dell’imposta risultante dalla fattura emessa.
La formulazione originaria della norma nazionale prendeva in considerazione esclusivamente gli eventi che, successivamente alla conclusione del contratto, investono lo svolgimento del rapporto giuridico, producendo la caducazione totale o parziale del negozio giuridico, senza menzionare, invece, le ipotesi di inadempimento contrattuale per mancato pagamento del prezzo, nelle quali il contratto mantiene la propria validità giuridica, sebbene sia alterato il relativo equilibrio sinallagmatico.
Quest’ultima ipotesi è stata introdotta con l’art. 2, comma 1, lett. c-bis) del d.l. n. 669/1996, convertito con modificazioni dalla legge n. 30/1997, che ha aggiunto, nel comma 2 del citato art. 26, il riferimento al "mancato pagamento in tutto o in parte a causa dell’avvio di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose".
Tuttavia, per esigenze di gettito e di certezza nell’accertamento dei rapporti tra parti private, il legislatore ha poco dopo abrogato l’inciso "dell’avvio" con l’art. 13-bis, comma 1 del d.l. n. 79/1997, convertito con modificazioni dalla legge n. 140/1997. In questo modo è stato disposto che la variazione in diminuzione dell’Iva per mancato pagamento del corrispettivo pattuito può essere emessa solo all’esito negativo della procedura esecutiva individuale o concorsuale.
Successivamente, la rettifica dell’Iva esposta in fattura è stata estesa anche all’esito di specifiche procedure finalizzate al risanamento dell’impresa e disciplinate dalla legge fallimentare.
In tale contesto normativo, con riguardo ai contratti ad esecuzione periodica o continuata, gli uffici dell’Amministrazione finanziaria hanno sostenuto, sulla base di una interpretazione meramente letterale dell’art. 1458 c.c. (sebbene contraria agli approdi della giurisprudenza e della dottrina civilistica), che la risoluzione del contratto non opererebbe retroattivamente con riguardo alle prestazioni già eseguite dalla sola parte adempiente, le quali resterebbero pertanto intangibili e quindi rilevanti ai fini dell’Iva.
In tale prospettiva, secondo l’Amministrazione finanziaria, il contraente adempiente, nonostante la risoluzione del contratto (giudiziale o di diritto), avrebbe potuto effettuare la variazione in diminuzione dell’Iva solo a seguito dell’esito infruttuoso di una procedura esecutiva volta a recuperare il credito nei confronti della parte inadempiente.
Al fine di superare il riportato orientamento erariale, l’art. 1, commi 126 e 127 della legge n. 208/2015 (c.d. "legge di stabilità 2016") è intervenuto nella materia in esame (si tralasciano, come detto, gli aspetti relativi alle procedure concorsuali, per altro successivamente modificati dalla legge n. 232/2016) chiarendo con disposizioni di carattere interpretativo, e dunque retroattive, quando una procedura esecutiva individuale debba considerarsi infruttuosa a questi fini nonché gli effetti tributari della risoluzione conseguente a inadempimento nell’ambito dei contratti a esecuzione continuata o periodica, al fine di recepire espressamente l’interpretazione civilistica dell’art. 1458 c.c. in materia di effetti della risoluzione, secondo cui la risoluzione ha efficacia retroattiva, salvo che con riguardo ai contratti a esecuzione continuata o periodica per entrambi le parti, per i quali l’efficacia retroattiva non opera con riguardo alle "coppie di prestazioni" contrapposte regolarmente eseguite dalle parti contraenti al momento della risoluzione del contratto.
E’ stato dunque escluso che, in ipotesi di risoluzione per inadempimento dei contratti a esecuzione continuata o periodica, alle prestazioni eseguite da una sola delle parti si applichi la diversa disciplina della variazione Iva prevista per l’ipotesi del mancato pagamento del corrispettivo.
Ciò chiarito, in base al disposto del comma 2 dell’art. 26 del d.p.r. n. 633/1972 (successivamente modificato dall’art. 1, comma 567 della legge n. 232/2016), la legittimazione a variare in diminuzione l’Iva in caso di risoluzione di diritto di un contratto sorge nel momento in cui quest’ultima si realizza, in applicazione della relativa disciplina sostanziale, non essendo necessario conseguire la risoluzione giudiziale del negozio giuridico.
Il secondo comma dell’art. 26 citato non effettua, infatti, alcuna distinzione fra le diverse fattispecie dell’istituto risolutivo. Ne consegue che il relativo ambito di applicazione comprende non soltanto la risoluzione giudiziale, ma anche le ipotesi di risoluzione che operano di diritto.
E’ stato chiarito inoltre che il termine "dichiarazione" - contenuto nella locuzione "dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissioni e simili" di cui al comma 2 dell’art. 26 - debba intendersi riferito solo all’ipotesi di nullità dell’atto che origina l’operazione imponibile e non anche alle ulteriori cause di caducazione degli effetti del negozio giuridico, quali la revoca, la risoluzione, la rescissione e simili.
Il nuovo comma 9 dell’art. 26 fa, infine, espresso riferimento alla "risoluzione contrattuale", da intendersi in evidente contrapposizione a quella giudiziale.
Non sussistono preclusioni, quindi, alla possibilità di attivare la procedura di variazione in diminuzione dell’Iva a seguito della risoluzione di diritto del contratto, senza la necessità di un accertamento giudiziale della risoluzione medesima.
Con riguardo, infine, alla differente ipotesi di mancato pagamento, in tutto in parte, del prezzo pattuito, la norma nazionale richiede, per potere esercitare il diritto alla variazione in diminuzione dell’Iva, che siano esperite le procedure esecutive individuali e che queste siano rimaste infruttuose (salvo poi specificare quanto tale condizione si verifica in concreto in relazione alle diverse procedure).
Tale condizione, come accennato, che non contiene neppure alcuna distinzione in ordine agli importi dei crediti in questione (a differenza dell’analogo regime ai fini delle imposte dirette), sembra porsi in contrasto con la disciplina della direttiva Iva, sia in quanto l’Iva dovuta all’erario deve corrispondere di regola all’Iva percepita dal soggetto passivo, sia per violazione del principio di proporzionalità, in quanto si impongono oneri procedurali che possono risultare antieconomici, con consequenziale violazione del principio di neutralità dell’Iva.
Di tale esigenza si è fatto solo parzialmente carico il legislatore con la legge finanziaria 2016, che è intervenuta per riconoscere espressamente la possibilità di emettere una nota di credito al fine di recuperare l’Iva in caso di risoluzione per inadempimento della controparte nei contratti a esecuzione continuata o periodica. Viceversa, per le altre ipotesi di mancato pagamento - in tutto o in parte - del prezzo pattuito, il recupero dell’Iva è condizionato all’esito negativo di una procedura esecutiva (esulano dal presente scritto gli aspetti relativi alle procedure esecutive). Quest’ultima condizione costituisce un adempimento defatigante e di dubbia compatibilità con la disciplina prevista dalla direttiva Iva (n. 112/2006), anche in ragione della circostanza che detta condizione non è richiesta, al ricorrere di determinati presupposti, ai fini della deducibilità della corrispondente perdita su crediti ai fini delle imposte dirette.
Per comprendere quanto sopra affermato si osserva che gli artt. 1, par. 2, e 73 della direttiva Iva sanciscono il principio secondo cui l’Iva è proporzionale al prezzo dei beni o servizi oggetto dell’operazione imponibile e che la base imponibile dell’imposta comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore di beni o al prestatore di servizi da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo.
L’art. 21, n. 1, lett. c) della suddetta direttiva prevede il principio che il soggetto passivo deve corrispondere l’Iva esposta in fattura.
Tuttavia, dopo l’emissione di quest’ultima, possono sopravvenire modificazioni della base imponibile o dell’imposta, dovute a una pluralità di ragioni diverse.
L’art. 90 della direttiva, pertanto, in attuazione del principio che la base imponibile è data dal corrispettivo realmente ricevuto, dispone che, in caso di "annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri". Tuttavia, continua la norma, "in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare" a quanto sopra rilevato.
I soggetti passivi hanno, dunque, il diritto a rettificare l’Iva dovuta nel caso in cui l’operazione venga meno, in quanto l’art. 90, par. 1, obbliga gli Stati membri a procedere alla riduzione della base imponibile ogniqualvolta, successivamente alla conclusione di un’operazione, il corrispettivo non venga totalmente o parzialmente percepito dal soggetto passivo.
La disposizione citata non precisa, tuttavia, le condizioni e gli obblighi che gli Stati membri possono prevedere affinché i soggetti passivi possano esercitare il diritto a rettificare in diminuzione l’Iva; detti Stati hanno quindi un potere discrezionale (i) in ordine alla previsione delle condizioni e delle formalità che i soggetti passivi devono adempiere al fine di usufruire del predetto diritto, nonché (ii) in merito alla possibilità di negare il diritto in questione in caso di mancato pagamento del prezzo.
Ciò non pregiudica, come sottolineato dalla Corte di Giustizia UE, «il carattere preciso e incondizionato dell’obbligo di ammettere la riduzione della base imponibile nei casi previsti» dall’art. 90, par. 1, che «soddisfa pertanto le condizioni per produrre un effetto diretto» nell’ordinamento interno degli Stati membri.
Ne consegue che i soggetti passivi possono far valere l’art. 90, par. 1 della direttiva direttamente dinanzi alle Autorità nazionali, per far valere il diritto alla riduzione della base imponibile Iva, nel caso in cui le condizioni e le formalità previste dagli Stati membri eccedano quanto necessario a dimostrare che il corrispettivo originariamente pattuito, in tutto o in parte, non è percepito.
Il legislatore nazionale, dal canto suo, con l’art. 26 del d.p.r. n. 633/1972 e successive modifiche e integrazioni, ha disciplinato le condizioni al ricorrere delle quali i soggetti passivi devono o possono procedere alla rettifica di fatture precedentemente emesse, qualora sopraggiungano eventi che determinino l’aumento o la diminuzione della base imponibile o dell’imposta.
A differenza delle variazioni in aumento, per le quali l’emissione di una fattura integrativa è obbligatoria ai sensi del primo comma dell’art. 26 citato, per le rettifiche in diminuzione dell’Iva è stata riconosciuta la facoltà, esercitabile limitatamente alle ipotesi previste dal legislatore, di detrarre l’Iva corrispondente alla variazione in diminuzione dell’imposta risultante dalla fattura emessa.
La formulazione originaria della norma nazionale prendeva in considerazione esclusivamente gli eventi che, successivamente alla conclusione del contratto, investono lo svolgimento del rapporto giuridico, producendo la caducazione totale o parziale del negozio giuridico, senza menzionare, invece, le ipotesi di inadempimento contrattuale per mancato pagamento del prezzo, nelle quali il contratto mantiene la propria validità giuridica, sebbene sia alterato il relativo equilibrio sinallagmatico.
Quest’ultima ipotesi è stata introdotta con l’art. 2, comma 1, lett. c-bis) del d.l. n. 669/1996, convertito con modificazioni dalla legge n. 30/1997, che ha aggiunto, nel comma 2 del citato art. 26, il riferimento al "mancato pagamento in tutto o in parte a causa dell’avvio di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose".
Tuttavia, per esigenze di gettito e di certezza nell’accertamento dei rapporti tra parti private, il legislatore ha poco dopo abrogato l’inciso "dell’avvio" con l’art. 13-bis, comma 1 del d.l. n. 79/1997, convertito con modificazioni dalla legge n. 140/1997. In questo modo è stato disposto che la variazione in diminuzione dell’Iva per mancato pagamento del corrispettivo pattuito può essere emessa solo all’esito negativo della procedura esecutiva individuale o concorsuale.
Successivamente, la rettifica dell’Iva esposta in fattura è stata estesa anche all’esito di specifiche procedure finalizzate al risanamento dell’impresa e disciplinate dalla legge fallimentare.
In tale contesto normativo, con riguardo ai contratti ad esecuzione periodica o continuata, gli uffici dell’Amministrazione finanziaria hanno sostenuto, sulla base di una interpretazione meramente letterale dell’art. 1458 c.c. (sebbene contraria agli approdi della giurisprudenza e della dottrina civilistica), che la risoluzione del contratto non opererebbe retroattivamente con riguardo alle prestazioni già eseguite dalla sola parte adempiente, le quali resterebbero pertanto intangibili e quindi rilevanti ai fini dell’Iva.
In tale prospettiva, secondo l’Amministrazione finanziaria, il contraente adempiente, nonostante la risoluzione del contratto (giudiziale o di diritto), avrebbe potuto effettuare la variazione in diminuzione dell’Iva solo a seguito dell’esito infruttuoso di una procedura esecutiva volta a recuperare il credito nei confronti della parte inadempiente.
Al fine di superare il riportato orientamento erariale, l’art. 1, commi 126 e 127 della legge n. 208/2015 (c.d. "legge di stabilità 2016") è intervenuto nella materia in esame (si tralasciano, come detto, gli aspetti relativi alle procedure concorsuali, per altro successivamente modificati dalla legge n. 232/2016) chiarendo con disposizioni di carattere interpretativo, e dunque retroattive, quando una procedura esecutiva individuale debba considerarsi infruttuosa a questi fini nonché gli effetti tributari della risoluzione conseguente a inadempimento nell’ambito dei contratti a esecuzione continuata o periodica, al fine di recepire espressamente l’interpretazione civilistica dell’art. 1458 c.c. in materia di effetti della risoluzione, secondo cui la risoluzione ha efficacia retroattiva, salvo che con riguardo ai contratti a esecuzione continuata o periodica per entrambi le parti, per i quali l’efficacia retroattiva non opera con riguardo alle "coppie di prestazioni" contrapposte regolarmente eseguite dalle parti contraenti al momento della risoluzione del contratto.
E’ stato dunque escluso che, in ipotesi di risoluzione per inadempimento dei contratti a esecuzione continuata o periodica, alle prestazioni eseguite da una sola delle parti si applichi la diversa disciplina della variazione Iva prevista per l’ipotesi del mancato pagamento del corrispettivo.
Ciò chiarito, in base al disposto del comma 2 dell’art. 26 del d.p.r. n. 633/1972 (successivamente modificato dall’art. 1, comma 567 della legge n. 232/2016), la legittimazione a variare in diminuzione l’Iva in caso di risoluzione di diritto di un contratto sorge nel momento in cui quest’ultima si realizza, in applicazione della relativa disciplina sostanziale, non essendo necessario conseguire la risoluzione giudiziale del negozio giuridico.
Il secondo comma dell’art. 26 citato non effettua, infatti, alcuna distinzione fra le diverse fattispecie dell’istituto risolutivo. Ne consegue che il relativo ambito di applicazione comprende non soltanto la risoluzione giudiziale, ma anche le ipotesi di risoluzione che operano di diritto.
E’ stato chiarito inoltre che il termine "dichiarazione" - contenuto nella locuzione "dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissioni e simili" di cui al comma 2 dell’art. 26 - debba intendersi riferito solo all’ipotesi di nullità dell’atto che origina l’operazione imponibile e non anche alle ulteriori cause di caducazione degli effetti del negozio giuridico, quali la revoca, la risoluzione, la rescissione e simili.
Il nuovo comma 9 dell’art. 26 fa, infine, espresso riferimento alla "risoluzione contrattuale", da intendersi in evidente contrapposizione a quella giudiziale.
Non sussistono preclusioni, quindi, alla possibilità di attivare la procedura di variazione in diminuzione dell’Iva a seguito della risoluzione di diritto del contratto, senza la necessità di un accertamento giudiziale della risoluzione medesima.
Con riguardo, infine, alla differente ipotesi di mancato pagamento, in tutto in parte, del prezzo pattuito, la norma nazionale richiede, per potere esercitare il diritto alla variazione in diminuzione dell’Iva, che siano esperite le procedure esecutive individuali e che queste siano rimaste infruttuose (salvo poi specificare quanto tale condizione si verifica in concreto in relazione alle diverse procedure).
Tale condizione, come accennato, che non contiene neppure alcuna distinzione in ordine agli importi dei crediti in questione (a differenza dell’analogo regime ai fini delle imposte dirette), sembra porsi in contrasto con la disciplina della direttiva Iva, sia in quanto l’Iva dovuta all’erario deve corrispondere di regola all’Iva percepita dal soggetto passivo, sia per violazione del principio di proporzionalità, in quanto si impongono oneri procedurali che possono risultare antieconomici, con consequenziale violazione del principio di neutralità dell’Iva.
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