Iva non versata: il ruolo della crisi di liquidità dell'impresa
Il tema del mancato versamento dell’Iva in concomitanza con la crisi di liquidità dell’impresa rappresenta una nota questione, trattata con frequenza nella Giurisprudenza più recente.
Prima di arrivare ai recenti approdi della Corte di Cassazione sul punto, è opportuno richiamare un’interessante Pronuncia del Tribunale di Bergamo che concerne proprio il tema della crisi di liquidità e del contestuale omesso versamento dell’IVA.
Come è noto l’art. 10 ter del D.lgs. 274/2000 punisce «con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale».
Il momento consumativo della fattispecie delittuosa in esame coincide, quindi, con la scadenza del termine per il versamento dell’acconto IVA relativo al periodo di imposta successivo, fissato dall’art. 6 c. 2 n. 1, della legge 405/1990 al 27 dicembre di ciascuna annualità, c.d. termine lungo.
La Sentenza del Tribunale di Bergamo n. 1907 del 2017 affronta la tanto discussa questione della valenza giuridica della crisi di liquidità dell’impresa.
Nella Pronuncia in esame l’imputato veniva assolto (il Tribunale riteneva non punibile il fatto per aver l’imputato agito in condizioni di forza maggiore), pur non avendo corrisposto l’IVA dovuta, che ammontava a c.a. € 6.000.000, perché si riteneva dimostrata l’idoneità della circostanza fattuale della crisi di impresa ad escludere la responsabilità penale sottesa all’adempimento dell’obbligo tributario, nel c.d. termine lungo.
Non vanno dimenticate le peculiari finalità dei reati previsti agli artt. 10 bis e 10 ter del D.lgs. Cit., che si differenziano dalle altre fattispecie incriminatrici ivi previste e volte a contrastare il fenomeno dell’evasione fiscale. Le fattispecie delittuose in commento, al contrario, concernono l’aspetto della corretta e puntuale percezione dei tributi, che nulla ha a che vedere con fenomeni criminosi collegati all’evasione fiscale.
Nel caso dell’IVA l’imprenditore, che compie un’operazione imponibile, diviene, simultaneamente, debitore nei confronti del Fisco e creditore del medesimo importo nei confronti della controparte privatistica con cui l’operazione viene svolta, da cui, di regola, incassa il corrispettivo pattuito, comprensivo della tassazione.
La punibilità dell’omesso versamento va ravvisata, quindi, nell’omesso versamento dell’importo di cui ha materiale disponibilità.
Pertanto, la Sentenza del Tribunale di Bergamo in commento, sancisce la rilevanza della crisi di liquidità dell’impresa (nel caso di specie in riferimento al mancato versamento della controparte) riconducibile a qualsivoglia natura della crisi aziendale che integri i requisiti della vis major cui resisti non potest (come nel caso dell’imprenditore che utilizzi quella somma per uno scopo diverso, nella ragionevole convinzione di poter recuperare altrove il debito tributario).
Anche il Tribunale di Milano nella Sentenza n. 13701/2015 da rilevanza scriminante alla sopravvenuta crisi di liquidità sui conti correnti dell’impresa alla scadenza del termine per il pagamento.
La crisi di liquidità non solo è stata inquadrata come esimente di carattere oggettivo, bensì è stata ritenuta influente anche sul profilo soggettivo del reato, dal momento che solo la concreta esistenza della possibilità di adempiere all’obbligo tributario può costituire il fondamento minimo della volontà delittuosa in capo al soggetto agente (V. Cass. Pen, n. 40352/15, Tribunale di Firenze, Ufficio GIP 27.7.2012).
L’imputato, inoltre, secondo la Giurisprudenza di legittimità, va assolto qualora fornisca la prova che non gli è stato possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il puntuale adempimento degli obblighi tributari, pur avendo posto in essere tutte le operazioni, anche sfavorevoli al proprio patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità (V. sul punto, Cass. Pen., n. 37301/2014, 9936/2016, 40352/15, 10503/2015).
Proprio in tema di crisi di liquidità assumono particolare rilevanza le procedure concorsuali regolate dalla Legge Fallimentare.
La Giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, Quarta Sezione, con la Sentenza n. 52542/2017, si è recentemente espressa con riguardo all’omesso versamento IVA a valle della presentazione della domanda di concordato preventivo, prendendo consapevolmente posizione sul terreno dell’antigiuridicità con riguardo all’art. 51 c.p., all’esito di una convincente lettura delle norme contenute nella stessa Legge Fallimentare.
Con la presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, infatti, l’impresa non può più sostenere alcun tipo di pagamento dei debiti pregressi, poiché altrimenti sarebbero integrati ulteriori reati di natura fallimentare, tra cui la bancarotta preferenziale.
Inoltre, a seguito della domanda di concordato preventivo, viene nominato, dal Tribunale Civile, un commissario che ha il compito precipuo di coadiuvare l’imprenditore nella composizione della crisi aziendale.
La descritta antinomia tra incriminazione ex art. 10 ter d.lgs. Cit., e obblighi scaturenti dal concordato, tra cui quello di non effettuare pagamenti nei confronti dei debitori, tra cui il Fisco, viene risolta alla luce della ritenuta operatività della scriminante di cui all’art. 51 c.p.
In sostanza, la Corte di Cassazione, nella Sentenza in commento, alla luce della discrasia tra la condotta punita all’art. 10 ter del D.lgs. 74/2000 e le prescrizioni contenute nella legge fallimentare, in seguito alla presentazione della domanda di concordato preventivo, afferma che, nel caso di omesso versamento IVA in pendenza di domanda di concordato, il mancato pagamento del debito tributario risponde ad interessi di tipo pubblicistico, di pari rango rispetto a quelli erariali, in particolare viene in rilievo il principio della c.d. par condicio creditorum.
Per altro verso, prosegue la Corte di Cassazione, affermando come, anche il requisito generale di proporzione, valido in tema di scriminanti, risulti soddisfatto dalla soluzione proposta, giacché si realizza un contemperamento tra le esigenze alla base della previsione della legge fallimentare e i contrapposti interessi erariali.
In conclusione, la Cassazione esclude la sussistenza del reato, addirittura sotto il profilo del fumus commissi deliciti (trattandosi quella richiamata di una pronuncia in materia cautelare), la prova del quale risulta notoriamente più agevole di qualsiasi pronuncia in tema di responsabilità penale.
L’orientamento della Cassazione è certamente condivisibile e conforme alle concrete dinamiche imprenditoriali; non può essere, quindi, addebitata all'imprenditore una sua responsabilità penale quando, per ragioni oggettive connesse alla crisi dell'impresa, egli non fosse nella condizione di adempiere l'obbligo tributario.
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