L'acquisizione sanante non è incostituzionale


L’acquisizione sanante non è incostituzionale -

Corte Cost., 30 aprile 2015, n. 71
L'acquisizione sanante non è incostituzionale
L’acquisizione sanante non è incostituzionale
Corte Cost., 30 aprile 2015, n. 71
Massima:
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 sollevata, in riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili.
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in quanto possono partecipare al giudizio in via incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
Brevi note:
La Corte è chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 42bis d.P.R. 327/2001.
1) Contrasto con artt. 3 e 24 Cost.
Secondo la prospettazione dei giudici rimettenti, la norma riserverebbe un ingiustificato trattamento di privilegio in favore della PA che abbia commesso un fatto illecito, fonte, per qualsiasi altro soggetto, dell’obbligazione «risarcitoria/restitutoria» di cui agli artt. 2043 e 2058 del codice civile.
Esaminando il punto, i giudici della Consulta osservano che l’art. 42bis è stato introdotto nel T.U. espropriazioni in sostituzione dell’art. 43, precedentemente dichiarato incostituzionale. La norma, pur presentando significative differenze con il precedente art. 43, ha reintrodotto la possibilità, per l’amministrazione che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, in sostituzione dell’ordinario procedimento ablativo. Ma, a ben vedere, non sussiste la paventata violazione del principio di eguaglianza. Invero, se pure il presupposto di applicazione della norma sia «l’indebita utilizzazione dell’area», tuttavia l’adozione dell’atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione; potere in base al quale la PA riprende a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, in conformità alla posizione di preminenza che le viene riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale. Né può riscontrarsi una violazione del diritto di difesa, poiché la violazione di tale parametro può considerarsi sussistente solo nei casi di «sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione» o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa e non anche nel caso in cui, come nella specie, la norma censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale. Piuttosto, la tutela viene conformata in modo da garantire comunque un serio ristoro economico, prevedendosi l’esclusione delle sole azioni restitutorie. Sotto altro aspetto, sempre secondo i giudici rimettenti, la violazione del principio di eguaglianza risulterebbe dal fatto che l’indennizzo previsto dalla norma censurata sarebbe ingiustificatamente inferiore nel confronto con l’espropriazione in via ordinaria dello stesso immobile. Ma, in realtà, la norma attribuisce al privato proprietario il diritto ad ottenere il ristoro del danno patrimoniale nella misura pari al valore venale del bene (così come accade per l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre ad una somma a titolo di danno non patrimoniale. Infine, i giudici rimettenti evidenziano un ulteriore profilo di incompatibilità con l’art. 3 Cost., sostenendo l’irragionevolezza della trasformazione del precedente regime risarcitorio in indennizzo, inteso quale debito di valuta che non tiene conto della svalutazione monetaria.
Al riguardo, i giudici delle leggi osservano che la norma prevede la corresponsione di un indennizzo, ma determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione. Peraltro, va considerato che l’inapplicabilità del comma 1 dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (pure non richiamato dalla norma censurata per i terreni a vocazione edilizia) esclude anche la riduzione del 25 per cento dell’indennizzo - prevista invece per le espropriazioni legittime - imposta quando la vicenda è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale.
2) Contrasto con l’art. 42 Cost.
I giudici rimettenti dubitano della compatibilità della disposizione censurata con l’art. 42 Cost., norma che qualifica la potestà espropriativa come eccezionale ed esercitabile soltanto ove ricorrano "motivi di interesse generale", imponendo che questi ultimi siano predeterminati dall’amministrazione ed emergano da un apposito procedimento, anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà. A ben vedere, anche questa ulteriore questione non è fondata, posto che ci si trova dinanzi ad una procedura espropriativa eccezionale che, sebbene "semplificata", si presenta "complessa" negli esiti, prevedendosi l’adozione di un provvedimento «specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione». Dunque, l’adozione del provvedimento acquisitivo presuppone una valutazione comparata degli interessi in conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo; e l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da considerare in comparazione con gli interessi del privato proprietario. Soltanto sotto questa luce tornano ad essere valorizzati - pur in assenza di una preventiva dichiarazione di pubblica utilità o in caso di suo annullamento o perdita di efficacia - i «motivi di interesse generale» presupposti dall’art. 42 Cost., secondo il quale il diritto di proprietà può essere compresso «sol quando lo esiga il limite della "funzione sociale".
3) Contrasto con l’art. 97 Cost.
Si lamenta, inoltre, dai giudici rimettenti che l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni violerebbe il principio del giusto procedimento, desumibile dall’art. 97 Cost. Anche tale questione non è fondata. Sul punto, giova preliminarmente osservare che il principio del "giusto procedimento" (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti), non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale. Non può omettersi di rilevare, però, che proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico». Tuttavia, il provvedimento di acquisizione sanante non può sottrarsi all’applicazione delle ricordate, generali, regole di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, come, infatti, è riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, che impone la previa comunicazione di avvio del procedimento. Ma, soprattutto, in virtù della effettiva comparazione degli interessi contrapposti richiesta dalla norma in questione, il privato sarà ulteriormente sempre posto in grado di accentuare il proprio ruolo partecipativo, eventualmente facendo valere l’esistenza delle «ragionevoli alternative» all’adozione dell’annunciato provvedimento acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene.
4) Contrasto con l’art. 117 Cost. e con l’art. 11 Cost.
I giudici rimettenti dubitano, ancora, della conformità della norma impugnata all’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma sarebbe in contrasto con i principi della CEDU. E ciò in quanto, in primo luogo, violerebbe la norma interposta di cui all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, rispetto al quale il fenomeno delle cosiddette "espropriazioni indirette" si porrebbe «in radicale contrasto»; in secondo luogo, violerebbe la norma interposta di cui all’art. 6 CEDU, avendo la Corte EDU ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza di «ragioni imperative di interesse generale». La norma risulterebbe anche in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui, disponendo la propria applicabilità ai giudizi in corso, violerebbe i principi del giusto processo, con particolare riferimento alla condizione di parità delle parti davanti al giudice. Le doglianze vengono esaminate congiuntamente e dichiarate infondate.
Occorre infatti considerare che l’art. 42bis risponde proprio all’esigenza primaria di eliminare definitivamente il fenomeno delle "espropriazioni indirette", che aveva fatto emergere quella che la Corte EDU aveva definito una "défaillance structurelle", in contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU. E non deve trascurarsi che l’art. 42-bis presenta delle significative differenze rispetto al precedente art. 43, differenze consistenti nel carattere non retroattivo dell’acquisto (ciò che impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato), nella necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione e, infine, nello stringente obbligo motivazionale che circonda l’adozione del provvedimento. Sicché, come innanzi osservato, questo obbligo motivazionale deve essere interpretato nel senso che l’adozione dell’atto è consentita solo quando non sia ragionevolmente possibile, all’esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà. Così interpretata la norma consente di riconoscere, per le situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore, l’esistenza di «imperativi motivi di interesse generale» legittimanti l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti, consistenti nell’ineludibile esigenza di eliminare una situazione di deficit strutturale, stigmatizzata dalla Corte EDU. Consente, inoltre, di considerare rispettata la condizione, posta dalla stessa Corte EDU nella citata sentenza Scordino del 6 marzo 2007, secondo cui lo Stato italiano avrebbe dovuto «sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la restituzione del terreno sistematicamente e per principio» ed impedisce alla PA di trarre vantaggio dalla situazione di fatto da essa stessa determinata. Infine, consente di escludere il rischio di arbitrarietà o imprevedibilità delle decisioni amministrative in danno degli interessati. Da ultimo, merita segnalare che deve valorizzarsi nella giusta misura la previsione del comma 7 dell’art. 42-bis, in base alla quale «[l]’autorità che emana il provvedimento di acquisizione [...] ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti». Invero, questo richiamo alle possibili conseguenze per i funzionari che, nel corso della vicenda espropriativa, si siano discostati dalle regole di diligenza previste dall’ordinamento risponde ad un invito della stessa Corte EDU secondo cui «lo Stato convenuto dovrebbe scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e dovuta forma, adottando misure dissuasive e cercando di individuare le responsabilità degli autori di tali pratiche».
Riferimenti normativi: artt. 3, 24, 97, 111, 113, 117 Cost.; art. 42bis d.P.R.327/2001.

Articolo del:


di Studio Legale Assocciato Militerni

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