L'Arbitraggio


L'istituto che consente alle parti di affidare a un terzo la specificazione di un elemento del contratto
L'Arbitraggio
Mediante l’arbitraggio i contraenti, nell’esplicazione della concessa autonomia negoziale, affidano ad un terzo estraneo la specificazione di un elemento del contratto, che è già concluso ma ancora incompleto.
L’arbitraggio si inscrive all’interno della c.d. eterodeterminazione del contratto, in quanto rientra nelle ipotesi in cui un elemento del negozio giuridico è rimesso alla determinazione di un terzo estraneo al rapporto contrattuale.
Il terzo, denominato arbitratore, per aggiungere l’elemento mancante deve interpretare la volontà della parti; la determinazione negoziale dell’arbitratore sarà poi accettata dalle parti proprio come se fosse espressione della loro volizione.
Può essere rimesso alla decisione di qualsiasi elemento: l’oggetto, il prezzo, le clausole accessiorie, ma non la natura delle prestazioni principali.
In ordine alla determinazione dell’arbitratore, la regola è la decisione con equo apprezzamento (c.d. arbitrium boni viri), ossia ispirata all’equità contrattuale: l’arbitratore deve attingere a criteri obiettivi, desumibili dal settore economico cui il contratto afferisce. Se le parti lo preferiscono, ivece, il terzo può decidere con mero arbitrio (merum arbitrium).
Diverso è il regime di impugnazione:
- ove le parti si siano rimesse all’arbitrium boni viri, se la determinazione del terzo manca od è manifestamente iniqua od erronea, l’art 1349 c.c. dispone che la decisone sia presa dal giudice. Trattandosi, infatti, di mezzo di integrazione di un contratto che non è ancora perfetto, le parti possono chiedere al giudice di sostituirsi all’arbitratore, affinché aggiunga l’elemento negoziale carente.
Ricorre la manifesta erroneità, secondo la giurisprudenza, quando è ravvisabile una "rilevante sperequazione tra le prestazioni contrattuali contrapposte, determinate attraverso l’attività dell’arbitratore" (Cass. 30 maggio 2005, n. 13954), che sia riconoscibile a prima vista, senza bisogno di lunghe ed approfondite indagini.
- quando, invece, le parti si sono rimesse al mero arbitrio del terzo, la determinazione di quest’ultimo non può essere impugnata se non provando la sua malafede, ossia l’intenzione lesiva nei confronti di una delle parti. La decisione rimessa al mero arbitrio dell’arbitratore, dunque, è insindacabile nel merito, salva la prova di dolo.
L’arbitraggio deve essere tenuto distinto dall’arbitrato.
L’arbitrato, sia nella forma rituale che irrituale, è infatti un mezzo di composizione delle liti con cui i privati, che hanno manifestato l’intenzione di rinunciare alla giurisdizione dello Stato, preferiscono deferire la controversia a privati cittadini, denominati arbitri. Il responso del terzo, in tal caso denominato "arbitro", non ha la funzione di integrare il contratto, ma invece di dirimere contestazioni, già sorte od eventuali.
A riprova della diversa natura giuridica, si consideri anche la differente collocazione sistematica degli istituti citati: l’arbitrato è disciplinato solo nel codice di procedura civile (artt. 806 e ss. c.p.c), mentre l’arbitraggio dal codice civile.

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di Enrico Spagnolo

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