L'assegno di divorzio nella più recente giurisprudenza


Una panoramica degli ultimi orientamenti giurisprudenziali sulla determinazione dell'assegno divorzile
L'assegno di divorzio nella più recente giurisprudenza

 

Una delle materie che in questi ultimi anni ha visto diverse interpretazioni giurisprudenziali è sicuramente quella della determinazione dell’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge.

Come a tutti noto, il punto, per così dire, di partenza è costituito dall’art. 5, sesto comma, Legge 1.12.1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come modificato dall’art. 10, L. 6.3.987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), che così recita: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Come si vede quattro, sostanzialmente, erano i principi che dovevano regolare le decisioni in merito:

1) Le condizioni economiche dei coniugi: in buona sostanza, se vi era una considerevole disparità reddituale tra le parti;

2) La capacità (ovviamente) reddituale del coniuge obbligato;

3) Il contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi;

4) La durata del matrimonio (quest’ultimo criterio era stato introdotto anche per arginare eventuali matrimoni di comodo o di “interesse” in cui uno dei due coniugi magari dopo soli pochi mese chiedesse la separazione da un coniuge economicamente molto più abbiente).

Per moltissimi anni uno dei criteri adottati dalla giurisprudenza è stato quello di individuare il tenore di vita che i coniugi avevano in costanza di matrimonio, nel senso che, per quanto possibile, al coniuge separato che aveva diritto al mantenimento si doveva cercare di mantenerne uno tendenzialmente analogo, in modo tale che questi non dovesse subirne un apprezzabile “deterioramento”. Criterio questo che è stato soggetto a diverse perplessità e in alcuni casi anche ad aspre critiche.

Con la ormai notissima sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 della Prima Sezione della Cassazione Civile il principio del tenore di vita in costanza di matrimonio è stato sostanzialmente soppiantato dal principio dell’indipendenza economica.

La sentenza, è opportuno sottolinearlo, riguarda l’assegno divorzile e si è pronunciata sia in ordine all’an debeatur sia al quantum debeatur.

Sotto il primo profilo, i giudici della Suprema Corte hanno recepito il principio secondo cui con il divorzio il vincolo matrimoniale, con i rispettivi diritti e doveri, si estingue in modo definitivo, con la conseguenza che ogni dovere di reciproca assistenza (morale e materiale) viene a cessare.

Giova ricordare, difatti, che mentre nella fase (teoricamente provvisoria o di “riflessione”) della separazione l’assegno di mantenimento mira a garantire al coniuge economicamente più debole, che si trova a non poter più contare sul sostegno, appunto, del coniuge, una certa “continuità” di situazione economica, con il divorzio l’obbligo sussiste solo quando l’ex coniuge non è in grado di mantenersi autonomamente.

Quindi, quando permane un obbligo di mantenimento da parte del coniuge economicamente più forte?

In pratica, solo quando il coniuge non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni obiettive.

Del resto, tale impostazione non faceva altro che recepire un già consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, mentre in sede di separazione l’assegno al coniuge economicamente più debole aveva natura di “mantenimento”, dopo il divorzio diventava di natura “assistenziale”, che costituisce chiaramente un concetto ben diverso.

Principio che si rinviene già nelle sentenze delle Corte a Sezioni Unite 29.11.1990, n. 11490, e 29.11.1990, n. 11492 che avevano escluso la continuità dello “status” economico del coniuge stante il definitivo scioglimento del rapporto tra i coniugi.

La Corte ha giustificato tale mutamento richiamandosi al principio di autoresponsabilità delle persone, che è poi collegato alla libertà delle singole scelte esistenziali.

Abbandonato così il criterio del tenore di vita, i princìpi a cui uniformarsi per la concessione e la determinazione dell’assegno si possono così sintetizzare: l’entità dei redditi percepiti, qualunque ne sia l’origine; il possesso di beni immobili; la disponibilità di una casa di abitazione; la capacità lavorativa tenendo conto dell’età, delle condizioni di salute del soggetto e delle sue capacità.

È utile rammentare che il coniuge tenuto a corrispondere l’assegno può detrarlo fiscalmente dalle imposte, mentre il coniuge che lo riceve deve dichiararlo e riportarlo nella dichiarazione dei redditi. L’assegno di mantenimento a favore dei figli non è soggetto a tassazione.

Nel 2018, con la sentenza n. 18287 dell’11.7.2018, la Suprema Corte è intervenuta nuovamente sull’argomento a Sezioni Unite.

L’intervento a sezioni unite era apparso utile ed auspicabile in quanto una parte della magistratura aveva iniziato a prendere le distanze dalla sentenza 11504/2017, ritenuta troppo restrittiva e foriera di ingiustizia nei confronti di certi ex coniugi che venivano a ritrovarsi in eccessiva difficoltà.

È stata così introdotta una sorta di contemperamento all’unico principio dell’adeguatezza dei mezzi, nel senso che la natura meramente assistenziale dell’assegno divorzile è stata sì confermata, ma le si è, per così dire, affiancata, anche una natura perequativa e compensativa.

Il “nuovo” criterio suggerito dalle Sezioni Unite consiste nella valutazione “dell’apporto fornito dall’ex coniuge nella condizione e nello svolgimento della complessa attività endofamiliare”.

In pratica, ciò impone al Giudice di non fermarsi al mero dato obiettivo delle capacità reddituali (che comunque entra sempre in considerazione), ma di entrare (cosa spesso non facile) nel merito della vicenda matrimoniale, anche attraverso, quindi, le decisioni maturate nel tempo dai coniugi.

Ne deriva, come già si diceva, che l’assegno divorzile oltre alla funzione assistenziale (alimentare in parole povere) assurge ad una funzione perequativa e compensativa, nel senso che bisogna valutare se quella disparità economica tra i coniugi derivi da scelte precise e condivise dai coniugi stessi, che hanno, quindi, portato uno dei due a sacrificare, in favore di altri valori ed altre funzioni, le proprie aspettative professionali e, quindi, economiche. Caso tipico, per semplificare, potrebbe essere quello della moglie che ha rinunciato al proprio lavoro per seguire ed accudire casa e figli, così permettendo magari al marito di consolidare ed accrescere il proprio status lavorativo, ad esempio come libero professionista.

Da un punto di vista pratico ciò comporta anche un diverso onere probatorio a carico delle parti, e in particolare del coniuge richiedente l’assegno, il quale dovrà anche provare le eventuali difficoltà od impossibilità a reinserirsi nel mondo del lavoro. Prove che, comunque, possono essere fornite con qualsiasi mezzo, non escluso l’uso delle presunzioni.

Un altro aspetto che, sempre a seguito dell’impostazione della sentenza delle Sezioni Unite di cui stiamo argomentando, torna di fondamentale importanza, è la durata del matrimonio, perché è evidente che le scelte dei coniugi e l’apporto economico non possono che essere considerate e valutate a fronte di un apprezzabile lasso di tempo.

Appare utile, infine, rilevare che il Tribunale di Treviso in diverse sentenze ha dichiarato di aderire all’impostazione della citata sentenza delle Sezioni Unite, dettando sostanzialmente i seguenti criteri:

a) Verificare se sussista un divario rilevante nella situazione economica dei coniugi, con l’esercizio di eventuali poteri istruttori d’ufficio. Se non vi è uno squilibrio, non c’è alcun diritto al percepimento, mentre, in caso contrario, si dovrà comprendere quali ne siano le ragioni;

b) Nell’ambito della funzione perequativo-compensativa dell’assegno, si dovrà accertare se il divario sia conseguenza anche dei sacrifici e delle rinunce in funzione della famiglia, effettuati dal coniuge richiedente: in questo caso l’assegno risponde alla finalità di ristorare la parte che, sulla base delle scelte della coppia, ha, ad esempio, sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa;

c) In mancanza, la funzione assistenziale dell’istituto consentirà di riconoscere al coniuge un assegno divorzile nel solo caso in cui non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli per ragioni di età, salute, situazioni personali o sociali, ma in tal caso, sotto il profilo del quantum, l’assegno sarà ricondotto ad un importo sostanzialmente “alimentare”, ossia tale da garantire le esigenze minime di vita della persona.

 

Articolo del:


di Avv. Adolfo Valente

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